Bernard Stiegler, in particolare negli ultimi lavori che ci ha lasciato, descrive in modo definitivo i processi di proletarizzazione: dalla scrittura come espropriazione della memoria in Platone, alla espropriazione del lavoro da parte della macchina e del capitale in Marx, sino alla espropriazione dei saperi da parte della governamentalità algoritmica iperveloce della società contemporanea.

Quando deleghiamo un sapere tipicamente umano a una macchina o a un servizio, dice Stiegler[1], svuotiamo l’uomo dall’interno, lo rendiamo obsolescente, lo riduciamo a consumatore cieco che perde non solo il proprio saper-fare, ma anche il proprio saper-vivere, il sapore dell’esistenza. Questo rischio è presente in ciascuna delle grandi transizioni per le quali la storia moderna è passata e lo è in modo del tutto particolare in quelle che stiamo attraversando.

Se consideriamo il nostro tempo sotto il profilo della transizione ecologica, di quella organizzativa, di quella formativa e di quella comunitaria, ciò appare con tutta evidenza. Come la proletarizzazione è avvenuta per le masse di operai attirati nelle città dalla prima rivoluzione industriale, oggi avviene con la crescente ed inarrestabile parcellizzazione e funzionalizzazione dei saperi tecnologici, a partire dai percorsi formativi che li costituiscono, nei quali persino lo scienziato è privato di una sua autonomia distintiva e reso ingranaggio di un meccanismo complesso che solo una intelligenza artificiale, totalmente disincantata, può comprendere e gestire.

Sta avvenendo anche con i saperi di comunità, ultima frontiera della coesione sociale, ultimo presidio contro la disgregazione totale. La comunità, ogni comunità, è fondata su un responsum, un atto linguistico che è al tempo stesso capacità di vedere, di riconoscere, di comunicare, di fidarsi, di assumere il rischio dell’alterità, di adattarsi e costruire insieme. Ciascuna di queste capacità rappresenta un sapere, un essere e un fare, consegnato ed alimentato da ciascuno mediante processi originari di individuazione e transindividuazione, come, seguendo Simondon, sempre Stiegler ci ricorda. Nel momento in cui anche questa sfera primaria della socialità dovesse essere colonizzata dall’algoritmo, nell’istante stesso nel quale la capacità di creare legami che chiamiamo “comunità” venisse resa calcolabile, prevedibile e programmabile mediante un dispositivo computazionale, l’ultima disgregazione sarebbe compiuta, la realtà sociale definitivamente trasformata in un social network virtuale.

A spingere in questo senso convergono molti fattori, non ultima la ricerca di servizi, prodotti e, più in generale, dispositivi di welfare che riescano a risolvere “in anticipo” i problemi della convivenza sociale e a rendere a priori, mediante il loro consumo, sempre più prospere e libere dal bisogno materiale le nostre esistenze. I termini “comunità” e “welfare” rappresentano un binomio comune, utilizzato in questi anni al limite del logoramento, ma occorre chiedersi, di fronte della possibilità tecnologica di concepire app e piattaforme di servizi in grado di prevedere e definire in anticipo i bisogni e indurre e veicolare alle persone risposte conseguenti a prescindere dal bisogno e dalla domanda individuale, se può esserci un welfare senza una comunità e i suoi saperi, e viceversa. Non è difficile immaginare come una comunità i cui saperi siano interamente proletarizzati possa divenire, dal punto di vista del welfare, una mera questione tecnica di need management, prevedibile, calcolabile, industrializzabile, mercantilizzabile, che dalla dimensione relazionale e “legaminosa” della comunità tradizionalmente intesa possa e probabilmente debba prescindere. È un rischio al quale la tecnicizzazione e la delega specialistica del welfare attuale, insieme alla disgregazione di molti legami sociali, prestano certamente il fianco. Stiegler, con Derrida e Platone, ci ricorda tuttavia che, in una prospettiva organologica, il veleno che corrompe è sempre in grado, se opportunamente trattato, di divenire farmaco che immunizza e cura.

La questione che si pone è quindi: può il welfare, inteso come complesso organologico di azioni di comunità e dispositivi pubblici di sostegno sociale e supporto ai legami, agire come pharmakon contro la proletarizzazione dei saperi di comunità? In altri termini, si può immaginare che ciò che chiameremo “welfare state” nella società che viene costituisca un dispositivo complesso per la ri-attivazione del desiderio individuale e comunitario di socialità e benessere, prima ancora che un meccanismo tecnico di redistribuzione di risorse e prevenzione di rischi materiali?  Alla radice dei saperi di comunità sta, a ben vedere, la questione fondamentale dell’articolazione del rapporto tra “io” e “noi” e delle forme sociali e organizzative che può assumere; in questo senso appare evidente che il welfare non rappresenta tanto un paradigma tecnico per il fronteggiamento di bisogni, quanto un paradigma politico che inerisce alla visione dell’uomo e della comunità che si intende assumere e sviluppare. Nulla vieta di pensare a un welfare più efficiente e tecnologico, anche basato su piattaforme e altri supplementi tecnologici; esso tuttavia potrà divenire farmaco efficace contro l’ultima disgregazione solo se, mediante i suoi funzionamenti, sarà in grado di aprire nuovi spazi di libertà “incalcolabile” per le persone, attivare il loro desiderio e la loro protensione verso qualcosa di più e di meglio di una mera soddisfazione materiale, “mettere al lavoro” il legame comunitario come soggetto attivo per la produzione di benessere personale e associato, favorire nuove modalità di transindividuazione nelle quali la relazione tra mittente e destinatario di ciascun servizio si trans-formi in una relazione di reciproca cura.

È una sfida che, a ben vedere, non solo è politica, ma è al cuore della politica, ed è questa la ragione per la quale la questione del welfare generativo dovrebbe essere considerata la fondamentale per ogni politica che voglia promuovere davvero ripresa e resilienza senza consegnare il futuro dell’umanità alle macchine.

[1] Stiegler, B., Anamnesi e Ipomnesi, Platone primo pensatore del proletariato, in Stiegler B., Platone Digitale, per una filosofia della rete, Mimesis, Milano, 2015, pp. 37-39.