Nell’ultima riunione dell’executive board, il direttore generale dell’Oms ha richiamato tutti i Paesi membri a costruire un fronte comune per superare i moltissimi «ostacoli scientifici, legali, logistici, regolativi» che sbarrano la strada all’efficacia della campagna vaccinale. E che non si tratti di un’impresa facile lo stiamo scoprendo anche qui in Italia: un conto sono gli annunci — che continuano a parlare di traguardi ambiziosi — un conto è la realtà. Dove si avanza tra ritardi e difficoltà. Sta di fatto che, al ritmo con cui si è proceduto in questo primo mese, l’obiettivo di arrivare al prossimo autunno con una immunità generalizzata è, ad oggi, molto incerto. E non ce lo possiamo permettere.

Nelle ultime settimane, esponenti autorevoli del mondo sanitario — in Italia Garattini, Mantovani, Vaia — sono intervenuti per invitare le autorità politiche a non ripetere gli errori di un anno fa, a inizio pandemia. Quando ciascuno si è mosso in una logica particolaristica. Di fronte a una calamità che sta devastando l’intero pianeta, il vaccino va pensato come «bene comune globale».

Ci sono diversi ordini di ragione per andare in questa direzione. Il primo è etico. Gli effetti negativi delle politiche vaccinali sono ampiamente documentati dal decorso delle patologie infettive più recenti (Hiv/Aids, malaria, polmonite, epatite C). Troppo alto è il costo umano che si è fin qui scaricato sulle popolazioni dei Paesi poveri. L’accessibilità universale al vaccino per il Covid 19 rimane un obiettivo centrale, che non può essere messo tra parentesi.

Il secondo ordine di ragioni è di tipo sanitario. Il tempo, nella lotta contro il virus, è una variabile cruciale. Quanto più esso circola (al di là di ogni confine nazionale) tanto più sono probabili mutazioni pericolose verso un «supervirus», come dimostrano le vicende delle ultime settimane. L’insufficiente disponibilità di vaccini, o il loro costo eccessivo, è una minaccia per tutti semplicemente perché prolunga la pandemia e le sue possibili trasformazioni.

Ci sono poi le ragioni economiche. Le speranze di una ripresa sono strettamente legate al successo della campagna vaccinale. Ci si trova quindi davanti a un caso in cui il vantaggio di pochi (le case farmaceutiche) rischia di prodursi a danno di molti. L’interconnessione mondiale costituisce un vincolo sempre più stringente per la prosperità economica di tutti.

Infine, le ragioni politiche. Le diverse potenze si stanno muovendo nella logica della «diplomazia del vaccino». Usando la disponibilità del siero per allargare la loro sfera di influenza, senza badare troppo alla qualità vaccinale. La Cina, il cui vaccino ha un grado di copertura relativamente basso, è attivissima sopratutto in Africa; la Russia, che dispone di un vaccino efficace, si sta muovendo soprattutto nell’Est Europa. La Ue, dopo aver saggiamente deciso la centralizzazione degli acquisti, non è, al momento, in grado di giocare un ruolo internazionale. Anche se, dopo la crisi delle forniture delle settimane scorse, l’attenzione di Bruxelles su queste questioni sta crescendo.

Si possono percorrere varie strade. Negli anni ’50, Jonas Salk rinunciò al brevetto sul vaccino per la poliomielite affermando:«Si può forse brevettare il sole?». Erano altri tempi. Ma questa scelta indica comunque una direzione di senso.

Gli strumenti legali (a partire dalla licenza obbligatoria) si possono trovare, tenuto conto che negli accordi Trips sui diritti della proprietà intellettuale è prevista la possibilità di derogare alla protezione brevettuale per circostanze eccezionali e periodi temporali definiti. Ed è difficile contestare che la pandemia del coronavirus rientri in questa fattispecie. È ben chiaro che gli investimenti privati nella ricerca vanno tutelati e adeguatamente remunerati. Ma la realtà è che il colossale sforzo della ricerca che ha portato in pochi mesi al vaccino è stato sostenuto con imponenti contributi pubblici e grazie alla circolazione delle informazioni tra l’intera comunità scientifica mondiale.

La posta in gioco è far sì che la pandemia Covid 19 diventi un catalizzatore per un cambiamento sistemico nella gestione di crisi globali che, come sappiamo, sono destinate a ripetersi nei prossimi anni per effetto dell’interconnessione planetaria (che include l’interfaccia tra esseri umani, animali ed ecosistemi), ormai diventata strutturale.

Ciò di cui abbiamo bisogno è il rafforzamento degli strumenti per la prevenzione e la protezione non solo dalle pandemie ma dai tanti possibili shock globali a cui siamo esposti (in primis quelli ambientali). La capacità di rispondere efficacemente a situazioni di emergenza deve essere vista come un investimento collettivo nella sicurezza e nel benessere comuni.

La sostenibilità di cui tutti parlano si costruisce concretamente sviluppando strumenti di collaborazione e coordinamento, nella consapevolezza che né Stato né mercato — da soli — bastano per affrontare problemi di complessità e portata mai viste. La campagna vaccinale Covid 19 costituisce un difficile banco di prova per gettare le basi di nuovi modelli di governance che ci serviranno per affrontare le prossime crisi globali.

Nell’ultimo anno, l’Europa si è candidata a essere leader nella costruzione di un pianeta sostenibile. Una presa di posizione della Ue sul vaccino Covid 19 come bene comune globale darebbe sostanza e credibilità a tali dichiarazioni.