Come in un paradosso, noi, gli abitanti del tempo accelerato e dello spazio dematerializzato, ci troviamo fermi. Improvvisamente, per una pandemia non più lontana.
Abituati a far coincidere la vita con gli attraversamenti continui di spazi in cui non sostare, con gli oltrepassamenti vertiginosi di tempi che si volatilizzano, ci troviamo in uno spazio confinato e in un tempo sospeso. Ci manca la terra sotto i piedi.
Lo spazio che avevamo pensato di abitare era quello immaginato senza confini, potendo andare – noi, cittadini globali – ovunque. E poi potendo tornare. Il più delle volte al punto di partenza senza che quel viaggio ci avesse più di tanto cambiati.
Il tempo che avevamo interiorizzato, quasi ingoiato, era l’istante del carpe diem dei gaudenti, avvolto nell’ebrezza di nuovi cominciamenti a ripetizione continua, senza che niente si consolidasse, mai. Se Marx guardava con preoccupazione al fatto che “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”, noi ne traevamo un godimento compulsivo senza saperlo denominare, nel quale però nuotavamo ossessivamente in vista di un nuovo colpo di fortuna.
Come in una brusca svolta a U, ci troviamo altrove. Fermi. Presi dalle vertigini. Scalzati dalle precedenti abitudini che, come un manto ovattato, smussano angoli e attutiscono rumori, ci sentiamo quasi espulsi dal nostro stesso corpo, esposto a un rischio sconosciuto che rende tutto attorno spigoloso.
Le immagini di chi, in prima linea, lotta e spera, e non conta più il tempo chinandosi sulla sofferenza dell’altro, donandogli il respiro della vita e con tenerezza i gesti di parenti e amici che non possono esser lì; le immagini di chi, dietro a mille quinte di scene che cercano di tenere accesa la luce, lavora per una comunità che improvvisamente è meno anonima e dispersa, popolano i nostri occhi. Mentre si guarda, si rimane attoniti, senza parole, come sbalorditi. E se finalmente ci lasciamo andare, ci troviamo con le lacrime che spuntano agli occhi. Sentiamo compassione. Non sulla base di idee razionalizzate che vorrebbero governare la realtà anziché tenersi in contatto con essa, ma in modo viscerale – un sentire profondo che avvicina. Niente improvvisamente è così scontato come pensavamo. Tanto meno la vita. E la vita è un viaggio, un esodo esigente.
In maniera misteriosa siamo fermi e in viaggio allo stesso tempo. Un viaggio coraggioso. Dal bagaglio strano. Non chiede di aggiungere ma di togliere. Non di assicurare ma di liberare. Per percorrere un tratto nuovo, in direzione opposta al consueto espediente di ri-sedimentare continuamente la terra sotto i piedi, in senso sia materiale che spirituale. Il pensatore russo Lev Šestov sembra metterci in guardia: “Ci sono istanti in cui, a un tratto, la nostra condizione ci si rivela in tutta la sua stridente incongruenza, in tutta la sua barbara oltranza, costringendoci a guardare in noi stessi. E allora la terra ci scivola via da sotto i piedi ma non per molto. Perché il terrore per questo senso di sradicamento rimette subito in sella l’essere umano. Scordiamoci di tutto, l’importante è tornare alla terra natia”.
Se però sospendiamo questa tentazione di un ritorno mosso dall’angoscia, l’espulsione da quei luoghi e tempi che sentivamo come ‘terra nostra’ – fossero stati anche dei non-luoghi o dei tini delle nostre miserie dentro cui non ci accorgevamo di sprofondare –, il vuoto inaugura un’altra aurora, dentro il passo dell’esilio.
Per molti, nei meandri di quell’umanità da tempo compresa tra le vite di ‘scarto’, si tratta di una condizione non nuova. La conoscono sulla loro pelle, immersi in un dolore che attende il parto di patrie diverse. E la cui esperienza, come una finestra, ci ha portato vicino i drammi del mondo. Ma quella finestra non è mai stato facile tenerla aperta per i globali che non conoscono cosa voglia dire essere espulsi da spazio e tempo. Per quegli esiliati della storia, caduti fuori dal tempo e scalzati dallo spazio, quelle coordinate si sono ritirate dal loro sangue.
Nell’esilio si finisce con il ‘vedersi’. Cosa che risulta quasi impossibile stando dentro le abitudini senza strappi, senza traumi. E si finisce con il vedere la città che si cerca, laddove forse è possibile farsi una vita migliore.
Nell’esilio, scrive la filosofa spagnola Maria Zambrano, si addensa la complessità dell’umana condizione, in cui ciascuno è invocato a essere partecipe di un possibile risveglio di se stesso e al mondo che non rimuove il vuoto dell’oscurità, e può mantenersi aperto alla convocazione della luce, a una possibilità di trascendersi, di inaugurarsi all’esistenza nella libertà, attraversando fino in fondo i labirinti del tempo. La condizione dell’esiliato diventa così una di quelle situazioni in cui si presentano “i segni della condizione umana. Quasi si stesse compiendo l’iniziazione dell’essere uomini”.
Si finisce con il vedere che, come esseri umani, siamo ciò che stiamo per essere in virtù di quello che patiamo e non di quello che ragioniamo.
Forse una ri-nascita, che avviene passando dalla ‘dis-nascita’, secondo la Zambrano: ciò che ha comportato la dissoluzione della casa abitabile e del tempo storico, ha spossessato l’Io delle sue illusioni e pretese, facendo iniziare un percorso di attraversamento di esperienze-limite che portano con sé il patire e una radicale operazione di decostruzione, quasi una nudità simile a quella sperimentata, appunto, alla nascita. Difficile lasciarsi interpellare da questa nascita in cui tutti, come esseri umani, siamo provocati a dire: non sono nato ancora. E a continuare a nascere, in un processo incessante che espone, senza riserve.
Tale nascita avviene ogni volta che non si esce troppo velocemente dal dolore volendolo esorcizzare; avviene tutte le volte che non si abdica alla vita, anche dentro la morte.
Vulnerabili e esposti – realtà che le tante seduzioni verso altri approdi ci ha fatto dimenticare -, ci si apre davanti un’immensità che ci sembra non avere contorno.
Non è facile non lasciarsi schiacciare dalle situazioni. Di oggi. Ma, nel finire con il ‘vedersi’, si scopre che non si può più nemmeno tollerare la disumanità accaduta nel mondo e ancora in atto, che produce disperati.
Nel finire con il ‘vedersi’, sale come un’onda silenziosa il pudore per la vita.
L’esilio – una situazione-limite per chi la vive dentro gli esodi umani da sempre ma oggi appello che sembra attraversarci da ‘fermi’ – è come se custodisse tra le mani ‘un pegno’: la realtà della nostra condizione umana stretta nell’interstizio tra angoscia e speranza, tra patimento del tempo e libertà, tra solitudine e appartenenza, tra vuoto e inaugurazione di sé.
In questo interstizio vertiginoso, che ha il sapore del deserto, ci si chiede: e dopo?
Finendo con il ‘vedersi’, si percepisce che il dramma della libertà – con le sue grandi conquiste dentro le continue liberazioni mai finite – non può dileguarsi nell’ipotesi illusoria dello slegamento totale dall’altro, da tutto e da tutti, inseguendo l’illimite. E’ troppo poco. E che rimettersi a correre per inseguire una crescita incurante di ciò che essa implica non ci può più assicurare né felicità né umanità. La divaricazione dei destini individuali e di quelli collettivi ci appare, oggi, in tutto il suo tumulto lacerante. Ci è mancata l’aria ben prima di questo trauma collettivo. Avevamo perso il gusto della vita e il sapore delle sue pieghe ispessite. La potenza che il trauma porta con sé, oggi percepita come drammaticamente negativa, può evolvere in distruzione. Ma può divenire slancio generativo di trasformazione. Di nascita e rinascita.
Ci pensavamo senza relazioni, felici così. Le relazioni che oggi ci mancano in tutta la loro forza e i loro limiti, ci accorgiamo essere ciò che ci fa uscire dallo stato di mutismo in cui c’eravamo infilati pur tra miriadi di parole buttate lì, vere e false, dentro l’oceano caotico che solo l’accelerazione sfrenata dello yacht su cui eravamo imbarcati riuscita a evitare. Ora che siamo fermi a riva ci accorgiamo del mare, e che a muoverci davvero forse è un altro vento.
E ci riscopriamo a onorare chi si china sul dolore e sull’amore più forte della morte.
Ci accorgiamo che l’esperienza della sofferenza – individuale e collettiva -, che ci scalza dai nostri linguaggi e rende balbettii tutti i nostri tentativi di spiegazione – pone un limite a quella reversibilità del senso cui ci eravamo abituati, quell’equivalenza divenuta un tarlo delle democrazie occidentali. Non tutto sta sullo stesso piano, tanto più di fronte a un volto sofferente, a tanti volti che invocano.
Ci accorgiamo che, in esilio dalle nostre isole senza arcipelago e acqua attorno, su cui ci sembrava di essere avvolti dal mito dell’onnipotenza, ascoltare la sofferenza può divenire una guida per ricostruire mondi più umani.
La questione dell’uomo non è mai oggettiva, neutrale, statistica, tecnica.
Immedesimarci ci sembra coincida con il vedere una luce nel tunnel. Quando si soffre si cerca un ‘tu’ con cui contendere, da chiamare in causa, a cui confidare perché sa tenere aperte le domande, permette di affrontare anche il non-senso in ragione e in forza del suo silenzio.
Come accade per l’esiliato che sperimenta la nudità – e che oggi forse possiamo guardare in modo diverso -, così l’uomo in alcune situazioni della vita tocca con mano che l’ex-istere è un uscire da sé, fino a confrontarsi con la domanda: ‘che altro posso fare se non nascere e rinascere con l’altro?’. L’esiliato manifesta così che anche la patria, oltre la categoria storica cui essa rimanda, ha un’altra forma, custodisce un’altra verità: “l’esilio è il luogo privilegiato per scoprire la patria” – scrive ancora Zambrano. E siccome “è vissuto nei suoi inferi”, chi attraversa l’esilio ne è uscito con un poco di verità “per essere la sua coscienza critica”, intravedendo su quella via la città che cerca.
Una città e patria sensata, il cui orizzonte tiene insieme il visibile e l’invisibile con cui confina.
Il pensatore ceco-brasiliano V. Flusser ce lo lascia intuire: “un mistero ancora più profondo di quello della patria geografica è la ricerca dell’altro. La patria del senza patria è l’altro (…) patria per me sono le persone per le quali mi assumo la responsabilità”.