L’emergenza che stiamo vivendo ci dà la possibilità di riflettere.
La perdita, dolorosa, è parte della rinascita: siamo feriti, ma impariamo che il nostro interesse non è il bene supremo e possiamo rendere opportunità questo punto di rottura.
Questo è un kairòs. Non un chronos che si sviluppa secondo le leggi della ripetizione, o di un divenire che è effetto già scritto nelle cause; piuttosto un punto di rottura, una discontinuità irreversibile che ci si offre come una perdita e insieme una possibilità. Che ci mette davanti a noi stessi, a una realtà che non possiamo più far finta che sia come la pensiamo, perché semplicemente è. C’è una verità in questo oggi: qualcosa che possiamo solo riconoscere, e lasciare che ci scuota, per poterci rimettere in movimento. Abbiamo imparato molte cose che volevamo rimuovere in questo tempo che è già radicalmente altro. Per esempio, che il “rischio zero” non esiste. È palese oggi che la sicurezza dipende solo da comportamenti responsabili, ovvero consapevoli degli altri, orientati al “noi”. Ma forse la cosa più preziosa è che questo spossessamento (di tutto: dal lavoro ai legami alle routines, ai progetti ) ci dà accesso alla “nuda vita”: senza puntelli, senza sovrastrutture, senza ideologie. Quella vita che ci mette di fronte al dilemma per il sì (sostenere la vita, per quanto rischioso possa essere, come fanno gli angeli di questo tempo – medici, infermieri, personale sanitario ma non solo, che non temono di rischiare la morte) oppure per il no (ripiegarsi sul rimpianto del tempo perduto, sperare che tutto torni presto come prima, cercare i colpevoli del nostro disagio accusando le mancanze di questo e quello: perdendo l’occasione di vita che questo momento, pur dolorosamente, ci apre).
Questo tempo ci insegna che la perdita è parte della nascita e della rinascita. Nascendo perdiamo il legame con il grembo che ci ha ospitato e protetto e iniziamo un cammino di esposizione, incertezza, e spesso solitudine, nostalgia. Ma senza questa perdita non potremmo esistere. Così per rinascere bisogna lasciar andare qualcosa, e questo è sempre doloroso. Ma la perdita è una morte – necessaria – per la vita. E in questo chiasmo insolubile c’è sempre un momento di rivelazione, e anche di rivoluzione possibile.
Questo tempo è traumatico. E il trauma, etimologicamente, è un perforamento, una trafittura, che contiene però anche l’idea di “passare al di là”. Non lo abbiamo scelto, questo tempo. Non so se avremmo potuto evitarlo. Ma so che, nel dolore e nella perdita può essere un “punto di conversione” – non, o non necessariamente, nel senso religioso. Un mutare, un trasformare e lasciarsi trasformare. Un saper rovesciare la morte in vita. Un saper abitare il paradosso: per esempio, pensando a come possiamo trasformare una calamità subìta, un destino indecifrabile, in una occasione di nuova libertà.
Ci sono esperienze dopo le quali non siamo più gli stessi, che lo vogliamo o no. Questo è un frangente in cui esperiamo collettivamente un punto di non ritorno. Siamo smarriti, angosciati; ma questo presente è anche gravido di futuro. Un futuro non scontato, non già contenuto nelle premesse.I punti di conversione sono anche punti di possibile perversione. Il ripiegamento individualistico, la nostalgia per ciò che si è perso, lo sfruttamento della situazione a proprio vantaggio se si è nelle condizioni di farlo; ma anche il seminare odio o inimicizia, il polemizzare che vede sempre solo negli altri le responsabilità mancate, la loro presunta inettitudine all’origine della nostra fatica di vivere, amare, esprimerci, pregare. Tutto questo ci preclude il cambiamento che può essere l’unico regalo vitale di questa catastrofe, di questo rovesciamento, di questa distruzione. In questo momento risuona un sentire comune, che attraversa le generazioni, le classi sociali, le provenienze culturali. Un sentire che mi pare i versi di Rilke sappiano catturare con profondità: «Come si spegne tramontando il giorno, io sono tutto una ferita; un orfano; un esule dal mondo, estraneo e solo…E stanno intorno a me, mute, le cose /siccome chiostri in cui mi sento chiuso». Siamo chiusi, siamo feriti e un giorno è tramontato. Ma abbiamo imparato nuovi gesti di vicinanza, di dedizione. Abbiamo imparato che il nostro interesse personale e immediato non è il valore supremo e che c’è dell’altro, un bene più grande per il quale vale la pena rischiare la vita.
Abbiamo anche imparato che tanta della nostra mobilità era superflua, che molte cose si possono fare a distanza; forse abbiamo imparato che appartamenti pensati come “macchine per abitare” diventano più rapidamente prigioni dei luoghi in cui il vicinato attento, la sollecitudine, l’attenzione per gli altri, l’aiuto reciproco fanno da intelaiatura della vita quotidiana: così se anche un anziano vive solo sa di poter contare su una telefonata, una spesa consegnata, un pensiero. Le piazze sono vuote ma vibriamo all’unisono in questa alternanza di angoscia e speranza. Non è vuoto questo tempo, o se lo è si tratta di un “vuoto promettente”. Rendiamolo un tempo di rinascita possibile, nel-la fedeltà a ciò che conta e nella leggerezza per l’inessenziale di cui ci siamo liberati insieme a tante perdite dolorose, quando ci sarà da riscrivere il futuro su una partitura nuova.