La discussione sulla proroga della cassa integrazione straordinaria impone interventi sulla formazione e la riforma urgente del sistema degli ammortizzatori sociali
La discussione sulla proroga della cassa integrazione straordinaria induce a qualche riflessione strategica sul rapporto lavoro-formazione nel quadro di un nuovo (auspicato) quadro di relazioni industriali. Gli imprenditori sostengono che non si può immaginare di congelare i posti di lavoro rispetto a una situazione economica in rapida evoluzione. I sindacati rispondono che non si può scaricare sulle spalle dei lavoratori l’aggiustamento di una contingenza gravosa come la pandemia. Da una parte la crescita, dall’altra la sofferenza sociale. Due principi giusti che, se semplicemente contrapposti, rischiano solo di guastare le speranze di un clima sociale nuovo.
La soluzione che si prospetta – con l’estensione della misura solo ad alcuni settori — disinnesca la mina ma non riesce a fare un passo in avanti. Eppure, ci sono segnali che dovrebbero aiutare il cambio di passo. Noi oggi sappiamo che le imprese che vanno meglio sul mercato sono quelle che costruiscono un rapporto di stima e fiducia con la propria manodopera, considerata non mero elemento strumentale ma parte essenziale del successo aziendale. Negli ultimi anni molte ricerche hanno mostrato tale correlazione. D’altro canto, altri studi ci dicono che i lavoratori oggi cercano un punto di equilibrio tra le esigenze di reddito e di sicurezza occupazionale e la qualità del lavoro: le persone (specie i giovani) hanno voglia di essere ingaggiate in progetti dotati di senso, in ambienti lavorativi positivi e costrutti-vi. Anche se una parte consistente del mondo del lavoro è ancora ben lontana da questa situazione, la tendenza evolutiva va in questa direzione.
Su queste basi, lo scontro in atto tra sindacati e imprenditori potrebbe spingere il governo e le parti sociali a osare un po’ di più. Almeno da due punti di vista. Sappiamo tutti che nei prossimi mesi partirà l’ambizioso Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) in cui sono stati indicati con precisione tutta una serie di investimenti. In queste settimane si è parlato di molte cose, ma non della quantità e della qualità del lavoro necessario per realizzare il piano. Rischiamo di trovarci in una situazione paradossale: licenziamenti da un lato e impossibilità di realizzare il Pnrr a causa di carenza di manodopera qualificata dall’altra. Se ci si muove in fretta, è dunque possibile, sulla base di una ragionevole stima dei lavori di cui avremo bisogno nei prossimi due anni, attuare un piano urgente di riqualificazione, trasformando il prolungamento della cassa in adesione a un piano di riqualificazione professionale in vista dell’implementazione del Pnrr. Un’iniziativa non risolverà i problemi soggiacenti alla discussione in corso, ma farebbe da apripista per un’azione più strutturale, secondo le linee indicate dal Pnrr che insiste sul tema della formazione tecnica (con il rafforzamento degli istituti tecnici e professionali) e continua (sapendo che in Italia si investe pochissimo in questo tipo di formazione). Ma soprattutto avrebbe il merito inaugurare un metodo diverso: legare più strettamente di quanto sia mai stato fatto la ri-qualificazione dei lavoratori, la competitività delle imprese e le necessità di sviluppo del paese. Per realizzare questo obiettivo ci vuole del tempo. E, vista la velocità con cui si sta muovendo Bruxelles, siamo già in ritardo. Perciò una ipotesi di questo tipo non può reggere senza il pieno coinvolgimento di imprenditori e sindacati.
D’altra parte non ha senso affrontare la questione del prolungamento della cassa integrazione slegandola dalla logica di quella riforma degli ammortizzatori sociali annunciata dal ministro Orlando. Il riordino del sistema è urgente. Si tratta di costruire una rete di protezione che permetta alle impresa di rispondere in modo veloce al mercato, senza però compromettere la stabilità della vita delle persone, già duramente provata. Un obiettivo tanto importante quanto difficile da raggiungere. Che può però essere perseguito creando — in un quadro unitario — (vere) tutele per gestire la mobilità lavorativa e (veri) processi di riqualificazione professionale (e motivazionale). La flessibilità — che è nell’interesse di tutti — si può ottenere solo alleggerendo le imprese e prenden-dosi cura seriamente delle persone. Se si vuole sfuggire all’assistenzialismo serve riuscire a man-tenere chi perde o cerca il lavoro all’interno del circuito formativo. Anche in questo caso, una buona riforma può essere ottenuta solo in un clima di vera alleanza strategica tra imprenditori e sindacati.
Non sappiamo ancora quale configurazione prenderà il nuovo modello di sviluppo nel post-pandemia. Sappiamo, però, che una delle dimensione che lo qualificherà sarà la centralità (o meno) del lavoro. Se, come tutti dicono, oggi (e domani ancor di più) è sempre meno l’occupazione (il posto di la-voro), e sempre più l’occupabilità a fare la differenza, occorre allora attrezzarsi perché un tale obiettivo possa davvero essere raggiunto. La vertenza sulla cassa integrazione è un primo banco di prova per un nuovo corso. Invece che scontrarsi sui principi, vale la pena cogliere le opportunità che questo difficile passaggio nascon-de tra le sue pieghe. C’è un bene superiore che si può raggiungere insieme. Alla parte datoriale, l’onore (e l’onore) di dare prova che il lavoro non è una merce che si butta via, ma un capitale che va rispettato e valorizzato. Alla parte sindacale, il compito (arduo) di capire che è tempo di difendere il lavoratore (aiutandolo ad avere le carte in regola per il mondo in cui vive) e non solo il posto di lavoro