Cosa vuol dire oggi stare sulla via della virtù? Che senso ha confrontarsi con questa tradizione millenaria in tempi in cui facciamo esperienza, ad ogni livello e condizione, dell’eclissi del padre e dell’annichilimento di ogni autorità?

Immersi nel mito individualista persino la santità oggi rischia sovente di essere risucchiata nel narcisismo e nella eccentricità.

Ma se vivere virtuosamente è non farsi vincere dalla paura di sé, degli altri, del mondo e di Dio forse si tratta di scoprire la virtù non come una forza potente ma una fragile e deponente.

È curioso e illuminante, in tal senso, il fatto che nell’arte figurativa, le virtù sono sempre rappresentate con volti e corpi di donne, non con corpi maschili. Come a indicarci la via femminile della forza della vita.

La virtù è una forza che non si dà da sé, ma nasce dalla relazione vera e libera con la realtà.

Abbiamo troppo sofferto l’idea che la virtù sia il frutto maturo della volontà dell’io.

Mentre a volte la volontà può essere nemica della virtù, perché non fa altro che cristallizzare i nostri pregiudizi ed esaltare il nostro orgoglio; non ci aiuta a vedere e ascoltare ciò che la realtà ci sta dicendo.

La via della virtù è un percorso che piuttosto si fa in compagnia della saggezza, uscendo dal proprio ego, anziché irrigidirlo, in compagnia dell’imperfezione e misteriosamente generata da essa. «Quando sono debole, è allora che sono forte» ci ricorda san Paolo.

Così la virtù non è propria dell’eroe e del superuomo. La virtù sostiene l’aspirazione profonda in ogni uomo, a realizzare ciò che siamo e ciò che siamo chiamati a essere, a vivere autenticamente il proprio desiderio.

Per troppo tempo l’abbiamo legata a stati di perfezione irraggiungibili, allontanandola da noi e dalla nostra quotidianità. Gesù ci ha insegnato che la virtù è inaspettatamente dove uno non avrebbe mai pensato: la fede di una donna cananea, la capacità di amare in una prostituta, la generosità in un ladro che riscuote le tasse o in una vedova poverissima; la bellezza nei gigli del campo, più belli degli abiti di Salomone.

Le virtù non sono dunque esperienza dell’“io”, come noi spesso pensiamo, ingannando noi stessi e costringendole a essere una sovrastruttura moralistica con i suoi meriti e i suoi debiti. Le virtù sono una esperienza dell’essere “tu”, dell’essere il “tu” dell’altro.

Le virtù sono relazione, la sostengono e le danno respiro: riescono a comprenderne la qualità, a sostenerne la tensione, a distenderne l’attesa, a viverne la conflittualità, a gustarne la meraviglia, a tollerarne l’orrore e gli errori, a discernerne il richiamo.

Questo è un capovolgimento di mentalità e di idee. La persona virtuosa non possiede la virtù, ma è abitata dalla virtù, si nutre di virtù. La persona virtuosa riconosce che è sempre un altro ad aprirgli la strada della virtù.

La persona virtuosa e la persona dell’Amen.