Ripartiamo» è l’espressione colma di speranza per dire la voglia di tornare il più velocemente possibile alla vita di prima. Se dircelo ci aiuta psicologicamente (un po’ come il «tutto andrà bene» nella Fase1) non dimentichiamoci che i mesi che abbiamo davanti saranno molto impegnativi. Gli economisti dicono che la caratteristica di questa crisi è quella di essere simmetrica: colpendo contemporaneamente domanda e offerta, il lockdown ha causato discesa del Pil senza precedenti.

Il rimbalzo previsto nei prossimi mesi — ammesso e non concesso di riuscire a convivere con il virus senza essere costretti a nuove chiusure totali — riassorbirà parte di questo crollo. Ma anche se così fosse (e dobbiamo ardentemente sperarlo) recuperare le perdite e ricostituire la fiducia necessaria sarà un percorso impegnativo. Dal lato dell’offerta, il Covid sta riorganizzando le filiere produttive. Ci sono settori (es. turismo, ristorazione) che ne escono strutturalmente ridimensionati: altri (es. trasporto, commercio al dettaglio) costretti a ripensarsi; infine quelli che, per via delle rinnovate esigenze di sicurezza geopolitica (il biomedicale, ma anche il digitale) devono rivedere le loro strategie territoriali: la geografia di molte catene del valore è destinata a cambiare.

Tutto ciò mentre la digitalizzazione e lo smart working cambieranno in profondità il modo di lavorare. Sia per le competenze richieste che per le forme contrattuali e le tutele collettive. Per realizzare questo aggiustamento e arrivare a una nuova situazione di stabilità ci vorrà tempo. Col problema di evitare il drastico peggioramento delle condizioni sociali e quindi degli equilibri politici. In tutti i casi, é inimmaginabile pensare di lasciare tale processo solo nelle mani del mercato, perché ciò provocherebbe un enorme costo umano. Per quanto importante — e già di per sé sfidante — questo primo piano di analisi è però insufficiente a cogliere la transizione che pure occorre attuare. La crisi infatti ci dice che, al di là della domanda e dell’offerta, ci sono almeno altri due aspetti che sarebbe disastroso non considerare.

In primo luogo, è vero che la complessità del mondo che abbiamo costruito ci permette di avere livelli di benessere mai visti; ma è vero altresì che essa ci espone a shock sistemici di varia natura ed entità. Negli ultimi vent’anni se ne sono registrati tre: l’11 settembre, collegato alle tensioni culturali e religiose che si sono sprigionate in rapporto ai processi della globalizzazione; la crisi finanziaria del 2008, che ha messo a nudo l’inadeguatezza dei sistemi finanziari globali; e ora il Covid che — anche senza volere stabilire delle correlazioni con lo stato della ecosfera — si è diffuso in ogni angolo del pianeta nel giro di poche settimane.L’instabilità e la vulnerabilità dei sistemi sui quali si regge la nostra vita quotidiana è un dato di fatto che non si può più ignorare. Sappiamo che altri shock ci colpiranno negli anni futuri. Ciò significa che dobbiamo prepararci per tempo, con gli investimenti e le riorganizzazioni necessarie (es. sanità o gestione del debito).

In secondo luogo, la pandemia ha messo in luce che proprio le società più potenti ampliano la fascia della fragilità. È proprio perché viviamo più a lungo e siamo capaci di controllare molte patologie che siamo anche più fragili. Nei paesi avanzati, il virus é diventato devastante perché é andato a colpire le persone anziane o pluripatologiche. Se guardiamo le statistiche, i dati italiani sono impressionanti: secondo l’Istituto Superiore di Sanità, le malattie croniche nel 2018 interessavano 24 milioni di italiani, dei quali 12,5 milioni con multi-cronicità. Come consideriamo questa popolazione? Un accidente? Un costo? Un problema?

La pandemia ci spinge ad avere una idea più realistica della composizione della popolazione di una società avanzata.Dalle grandi crisi storiche possono derivare esiti opposti: disastri ancora più grandi (come nel caso della prima guerra mondiale) oppure accelerazioni positive: che nei casi più fortunati può addirittura coincidere con l’avvio di un nuovo ciclo storico (come fu dopo la fine della seconda guerra mondiale).

Moltissimi fattori concorrono a determinare la direzione che si prende. E questo vale oggi come nel passato. Ripartire é una «bella speranza». Ma se ci aspettiamo lo «scatto della ripartenza» resteremo delusi. E con la disillusione arriveranno lo scoramento e la rabbia. Se invece proveremo a dare risposte nuove ai problemi vecchi che oggi con più urgenza dobbiamo affrontare, possiamo sperare di uscirne davvero trasformati.La stagione di una crescita pensata come aumento indiscriminato e illimitato di possibilità è finita. Abbiamo bisogno di una concezione diversa. Sempre di crescita si tratterà. Ma una crescita capace di trovare un nuovo (difficile e delicato) equilibrio tra le esigenze della produttività e quelle dell’ambiente; tra l’efficienza economica e la giustizia sociale; tra gli investimenti in tecnologia e quelli nelle persone; tra l’eccellenza e la fragilità; tra la quantità e la qualità; tra la competitività e la coesione.

Non sarà con la frenesia del fare che si potranno risolvere i problemi che abbiamo davanti a noi. Come dice Seneca, «non c’è vento favorevole per il marinaio che non sa a quale porto approdare». Forse é questa la vera scommessa che comincia con la Fase2: provare a dirci dove vogliamo andare, così da dotarci — insieme — di ciò che ci serve per arrivarci. Questo è l’unico modo intelligente per «ripartire».