Scrive in maniera stimolante Zygmunt Bauman ne Gli usi postmoderni del sesso: «Nell’amore la speranza e la promessa dell’“amore eterno” sono investite in un corpo che è tutto meno che eterno; l’eternità dell’amore e dell’amato è la menzogna che riscatta la cultura, aiutandola ad assimilare quello che in realtà sfida ogni comprensione. Un essere mortale viene amato come se fosse immortale e viene amato da un altro essere mortale in una maniera accessibile solo agli esseri eterni». Il succo di una sfida che si trascina da secoli: l’amore può durare e assumere i contorni di un impegno che apre il e al futuro o è eterno finché dura, facendo del presente la sua unica dimensione e dell’istante la sua provvisoria dimora? Non inizia qui l’ambizioso tentativo di farsi carico di una risposta definitiva, ma l’umile proposta di scardinare alcuni luoghi comuni – la promessa rende schiavi e soffoca la libertà; la promessa d’amore, in particolare, tradisce l’autenticità del sentimento e lo trasforma in un dovere senza passione – per svelare qualcosa d’altro: la feconda portata generativa della promessa e dell’amore promesso.

Il valore della promessa

Pro-mittere, ovvero “mettere in presenza di”, “sottoporre allo sguardo di qualcuno” e quindi anticipare ciò che avverrà, impegnandosi in prima persona perché avvenga; “assicurare”, “dare la parola”, obbligare se stessi a rispettare ciò in merito a cui si prende un impegno. Promessa: espressione emblematica della nostra condizione esistenziale, in cui mutamento e costanza, istante e durata, identità e differenza convivono, consegnandoci qualcosa di essenziale in merito a ciò che siamo e al volume integrale della relazionalità della persona. Promettendo si tiene insieme, in modo fragile e prezioso, la decisione di un inizio, che vuole superare la contingenza del momento, l’impegno nel tempo e con il tempo, nella diversità e con la diversità, di coerenza e per la coerenza, e l’intreccio speciale di libertà e vincolo. Tutto ciò rende non solo la promessa una delle nostre capacità fondamentali, ma forse la più ambiziosa ed eccellente tra tutte (come ben evidenziato in più momenti nella riflessione di Paul Ricoeur).

Essa, infatti, trasfigura la nostra caducità e regala una dimensione nuova alla nostra libertà, nella misura in cui, da un lato, si candida a progettare un “dopo” rispetto al nostro ora e, dall’altro, si impegna a rendere possibile un intreccio non semplice tra costanza, coerenza, fedeltà in nome della responsabilità. Per questo la promessa finisce per ospitare, magari con conflitto, ma senza contraddizione, potere e dovere, presente e futuro, identità e mutamento. Promettere non contraddice ma compie la libertà, nella misura in cui non la riduce a dissipazione puntiforme dell’io o esaltazione prometeica della volontà; attesta piuttosto, ri-collocando ogni persona nel suo luogo naturale, ovvero la relazione costitutiva, l’originarietà e il compimento di ogni soggetto dentro una cornice relazionale.

La fatica della promessa d’amore

Di tale doppio livello dell’impegno a cominciare e della responsabilità a mantenere, la promessa d’amore è emblema, seppure costantemente sotto attacco. Frédéric Beigbeder scrive nel suo L’amore dura tre anni: «Vi si fa credere che è per la vita, mentre, chimicamente, l’amore scompare nell’arco di tre anni. L’ho letto in una rivista femminile: l’amore è una botta effimera di dopamina, noradrenalina, prolattina, luliberina e oxitocina. Una piccola molecola, la feniletilammina (FEA), provoca sensazioni di allegria, esaltazione, euforia. Il colpo di fulmine sono i neuroni del sistema libico saturi di FEA. La tenerezza sono le endorfine (l’oppio della coppia). Tre anni! Le statistiche, la biochimica, il mio caso personale: la durata dell’amore resta sempre identica». Prima di lui, su un altro terreno, autori come Nietzsche e Sartre hanno sostenuto che chi promette di amare per sempre promette qualcosa che sfugge al proprio controllo e riduce l’amore inevitabilmente a dei gesti che si devono compiere anche in assenza di sentimenti.

Non si può pensare allora di avvicinare questa sfida senza dare qualche cenno rapido del modo in cui è cambiata e sta cambiando la relazione tra amore, erotismo e sessualità. Mi faccio accompagnare in questo da due tra le tante possibili e autorevoli voci che si sono spese in merito, con l’obiettivo di intravedere, nelle loro analisi e nonostante la tendenza prevalente, ragioni e senso della portata generativa della promessa d’amore.

Il primo a traghettarci in questo mare ricco di correnti è Richard Sennett, il quale, ne Il declino dell’uomo pubblico, parla di una “idealizzazione dell’intimità”, che «ha portato anche a reagire all’idea che l’amore fisico sia un atto in cui le persone si mettono in gioco, e che, come ogni altro atto sociale, richiede norme, limiti e meccanismi stabiliti che gli conferiscono un particolare significato. Invece, il sesso è concepito come una rivelazione dell’Io […] un’incessante, frustrante ricerca di noi stessi attraverso i genitali». La “moderna relazione” diventa una questione privata, individuale e personale, per cui «rifiuta l’idea dell’amore fisico come atto sociale, lo considera un’affinità emotiva che, per definizione, si colloca al di fuori della rete degli altri rapporti sociali di un individuo». Non solo l’amore, ma persino la sessualità non ha più alcuna dimensione sociale e non è più in alcun modo una forma d’impegno, personale o comunitaria. Ciò comporta che la cancellazione della dimensione oblativa, con la sua carica di responsabilità, e l’affermazione onnipotente della dimensione affettiva, con l’annullamento di ogni tutela altra da ciò che si prova, hanno finito per svuotare la possibilità di una promessa di amore reciproco: si è disposti a superare la distanza fisica a patto di non impegnarsi a costruire insieme quella temporale, per cui si è barattata la durata nel tempo della promessa d’amore con la convivenza in un presente senza pensieri; in una società che non pensa sia possibile imparare a morire, diviene impossibile pensare che si riesca ad imparare ad amare; in un tempo nel quale la morte è ridotta all’istante a cui non si pensa, l’amore finisce per essere l’istante che si deve godere appieno; e se la morte scompare dalle possibilità umane, come si può pensare di vivere un amore che giunga fino alla morte?

Il secondo è Paul Ricoeur, che in Sessualità. La meraviglia, l’erranza, l’enigma si dedica al tema della difficile istituzionalizzazione di quel sentimento speciale che è l’amore, finendo per incorniciare l’alleanza fragile tra spirituale e carnale in quella che egli chiama la necessità della tenerezza: per conquistare intensità e durata, il legame sessuale deve lasciarsi educare dalla disciplina dell’istituzione, del matrimonio come istituzione e alcova di un’etica della tenerezza, che si radica – potremmo aggiungere noi – proprio su un ethos della promessa. Il testo conduce un’interessante analisi del fenomeno amoroso, datata 1960, ma assolutamente valida ancora oggi: Ricoeur definisce quella che stiamo vivendo una “dissacralizzazione dell’amore”, che si manifesta in tre fenomeni ben precisi: in primo luogo, la caduta nell’insignificanza, la perdita di valore per mezzo della facilità («il sessuale divenuto vicino, disponibile e ridotto ad una semplice funzione biologica, diventa propriamente insignificante»); in secondo luogo il fatto che, contemporaneamente, la sessualità sia divenuta imperativa, «a titolo di risposta alle delusioni provate in altri settori della vita umana», come una dimensione dello svago («esasperata dalla propria funzione di compensazione, e di rivincita, diventa in qualche modo sconvolta»); infine, la delusione del senso, per cui nel momento che «nulla ha più senso, resta il piacere istantaneo e i suoi artefici». Come se la facilità abbia creato l’ossessione. Qui la promessa d’amore potrebbe allora raccogliere la sfida di diventare il luogo in cui fecondamente e reciprocamente si nobilitano istituzione (e quindi obbligo), eros (e quindi sessualità) e tenerezza (e cioè umanizzazione della sessualità): «nella tenerezza il rapporto con l’altro vince e può reclutare l’erotismo nel senso di componente sensuale della sessualità». L’amore implicherebbe dunque una promessa diversa, ovvero una promessa che non si misura sulla sua felicità o infelicità, sul suo seguito o meno, ma indipendentemente dai suoi effetti, oltre la sua efficacia: la tenerezza sarebbe il frutto di un impegno sul lungo termine, e quindi di una promessa di durata che eleva l’amore e non lo annulla.

La promessa d’amore e la sua generatività

«- Fra un’ora prometto di essere bell’e ritornato. – Bada Pinocchio! I ragazzi fanno presto a promettere: ma il più delle volte fanno tardi a mantenere». C’è una costante ne Le Avventure di Pinocchio (da cui qui è riportato lo stralcio di un dialogo tra Pinocchio stesso e la Fatina): il burattino ammette di voler fare qualcosa e spesso lo promette, ma finisce per compiere l’opposto. Emerge qualcosa di curioso: a distinguere l’essere umano dal burattino è esattamente la promessa e la capacità di mantenerla. Pinocchio cresce e diventa un vero bambino (e quindi, potremmo aggiungere, un essere umano) quando riesce a mantenere la promessa fatta (quella di prendersi cura del suo papà), mentre al culmine delle promesse non mantenute (l’appuntamento dalla Fata turchina che diventa la fuga al Paese dei Balocchi) diventa un asino (un animale). La promessa e la capacità di mantenerla si potrebbero allora guardare anche come tappe essenziali di quel cammino che conduce verso l’età adulta, se non addirittura come due tra i fattori che marcano la differenza tra ciò che è umano e ciò che non lo è. E per l’amore? Si può promettere un investimento sentimentale? Si può dire lo stesso? Si può cioè parlare della promessa d’amore come dell’ingresso nell’età adulta del sentimento e dell’impegno? Questa è la sfida. Ma è una sfida possibile e di quale portata?

Poter rispondere di sì (nella misura in cui la promessa non è qualcosa che pianifica, organizza, determina un futuro inevitabilmente indeterminato, bensì nella misura in cui costituisce la condivisione e l’accettazione di una comune finalità e non di una reciproca causalità) rivela la portata generativa della promessa d’amore, che libera l’amore medesimo dall’immediatezza impulsiva (un bisogno può non essere soddisfatto) e lo impegna in un progetto di vita (l’unico degno dell’intimità), rendendolo pienamente umano e adulto. L’amore, sostiene Ricoeur, così come la nostra cultura l’ha modellato, avanza fra due abissi: quello del desiderio errante e quello di una volontà ipocrita di costanza, caricatura rigorista della fedeltà. Raro resta l’incontro, nella fedeltà vivente, tra Eros insofferente di ogni regola e l’istituzione che l’uomo non riesce a mantenere senza sacrificio. Ma quando ciò avviene, sulla base di quell’impegno che è la promessa d’amore, si riconosce che c’è qualcosa che oltrepassa il proprio essere personale e il sentimento che mi lega all’altra persona. E qui la promessa d’amore rivela la sua fecondità, almeno su due piani, addirittura antecedenti il terzo e più immediatamente pensabile, ovvero quello della messa al mondo dei figli.

In primo luogo, questo “oltre” nella durata rappresenta la “generazione” politica e civile della promessa d’amore, che mette al mondo una comunità, la quale non deriva dalla somma algebrica e dal mero dovere: l’impegno nella durata della relazione, nella coerenza del proprio sé e di quello altrui, nella fedeltà nei confronti di un sentimento diventano un mattone prezioso per una comunità, qualcosa su cui si può fare affidamento e su cui investire. Si tratta della dimensione pubblica dell’impegno, quella sulla cui stabilità si può contare e governare: la formalizzazione di qualsiasi sentimento in un impegno a durare migliora la qualità dei legami e affida alla politica al contempo la possibilità e il dovere di custodire e favorire simili forme di responsabilità.

In secondo luogo, scoprire questo “Oltre” nella durata, grazie al quale si riesce a sopportare l’impossibile (ciò che per definizione è possibile solo a Dio) costituisce la “generazione” sacramentale e teologale della promessa d’amore: riconoscere la fatica e non fuggire dal sacrificio, affidando non esclusivamente alle proprie forze la realtà – oltre che la possibilità – del proprio impegno segna la differenza tra un patto civile e un sacramento, in cui arriva un Terzo che, come scrive Bonhoeffer, offre all’impegno una presenza che lo rende qualcosa di più del reciproco amore.