Che qualcosa di arcaico come un’epidemia sia riuscita a bloccare e a mettere in seria difficoltà una società avanzata come quella del Nord Italia ha qualcosa di sbalorditivo. Ci troviamo davanti a uno scenario inedito, che ci deve spingere a capire più in profondità il mondo in cui viviamo.

Con-tangere. È questa la radice etimologica di «contagio», la stessa di con-tatto. Dunque si tratta di un fenomeno che ha a che fare con quello che Heidegger chiama «essere con». Con l’inevitabile «toccarsi» del vivere sociale. Ma anche con l’esposizione alla natura, cioè a ciò che non é sotto il nostro controllo.

Ci siamo abituati all’idea di un mondo ad alta connessione. Siamo in comunicazione istantanea con ogni dove, mentre la nostra conoscenza dell’epidemia si aggiorna ogni minuto.
Con-nessione, co-municazione, co-noscenza, tutte parole che, come con-tagio e con-tatto, si formano con il prefisso -co.

Contrariamente a quanto siamo portati a pensare, la terra non è abitata da miliardi di «Io» che vivono gli uni indipendentemente dagli altri e dall’ecosistema che li ospita. Che ce ne rendiamo conto o no, ognuno di noi vive «con» altri e altro da sé. Si può e si deve dunque dire che la vita sociale è sempre con. Anche se a cambiare sono i modi in cui questo con viene organizzato. Persino la con-correnza (che etimologicamente significa «correre insieme») dovrebbe essere correttamente intesa in questo senso. Per non dire nulla della col-laborazione, della co-operazione, della co-munità.

In effetti, vivere in una società avanzata significa godere dei vantaggi di un mondo in cui si sono aumentate la libertà e l’autodeterminazione di ogni «Io» grazie al rafforzamento, ampliamento e accelerazione dei canali, delle infrastrutture e delle condizioni del con -. Ma come stiamo dolorosamente imparando in questi giorni, ciò ci espone anche a problemi nuovi. Per natura e portata. È proprio perché le nostre società sono avanzate che il coronavirus si è potuto trasferire nel giro di poche settimane da una sperduta località della Cina in tutto il mondo. Ed è a causa della condivisione di una conoscenza e di una comunicazione impensabili fino a pochi anni fa, che ci ritroviamo a seguire giorno dopo giorno, ora dopo ora l’evoluzione dell’infezione. Così, ciò che in passato veniva vissuto in modo fatalistico, oggi viene combattuto con la scienza e l’organizzazione. Nella consapevolezza condivisa — non facile da reggere sul piano collettivo — che si tratti di una battaglia durissima.

La verità è che oggi siamo tutti più impigliati gli uni negli altri. Il potenziamento dell’io comporta un infittimento del con. Di fronte al diffondersi del contagio l’Italia è stata chiusa. Una cosa impensabile fino a pochi giorni fa. Cosi il fantasma immunitario — di chiusura, difesa, respingimento — che da anni circola anche da noi diventa improvvisamente realtà. Costringendoci a un momento di verità.

Da una parte, va riconosciuta la superficialità con cui si sono valutate le implicazioni dell’aumentata connessione. Il riscaldamento globale, il terrorismo, le grandi migrazioni, le tensioni sui dazi, l’instabilità economica, le epidemie planetarie. L’elenco dei problemi che derivano dalla ristrutturazione del con avvenuto a fine ‘900 è lunghissimo. Ma chi ne ha saputo prevedere la portata?

Dall’altra parte, é subito evidente l’effetto claustrofobico che la chiusura porta con sé. La separazione ci appare insostenibile: non è né possibile né desiderabile disincagliarsi dal destino comune che l’interconnesione globale ha creato.

Una delle possibili radici etimologiche del termine latino «sicurezza» é «sine cura». Di fronte alle tante e sorprendenti insicurezze del nostro tempo, l’io immunitario vorrebbe sottrarsi alla responsabilità della connessione chiedendo a qualche sistema di farsi carico, a nome suo, degli oneri che le nuove forme del con comportano. Le tecniche, le organizzazioni, le istituzioni di cui disponiamo (esse stesse forme di con) sono e restano fondamentali. Ma occorre stare attenti a evitare che la domanda di sicurezza non sia un alibi per sgravarsi dalle proprie personali responsabilità. Ancora Heidegger ci aiuta a fare questo passo: in tutte le forme che può prendere, il nostro «essere con» comporta la cura. Cura verso di sé, l’altro, il mondo intero.

L’esperienza così drammatica del contagio di queste settimane ci dice che abbiamo ancora molta strada da fare se vogliamo reggere la co-abitazione nel mondo iperconnesso. Ma soprattutto ci insegna che ogni forma di con esige di riconoscere il legame originario tra l’Io e l’altro. Da ciò deriva quella responsabilità della cura senza la quale il con decade velocemente in con-flitto.

Non sta forse qui la possibilità (teorica) di fermare il contagio? Diventassimo tutti consapevoli dei nostri comportamenti e più attenti ai gesti quotidiani — rispettando rigidamente le indicazioni date dalle autorità — potremmo arrestare oggi stesso la diffusione dell’infezione.

Le cose sono ovviamente più complicate. Ma rimane che il covid-19 ci chiede — anzi esige — questo esercizio. Che dovremo poi applicare a tanti altri ambiti della nostra vita: la comunicazione (il modo in cui prendiamo la parola nei vari circuiti social e mediali) la concorrenza (il nostro rapporto col mercato), la contaminazione (tutto il tema ambientale), la comunità (il nostro modo di essere parte dei mondi social nei quali viviamo).

L’Italia è chiusa. Ma solo per riaprire. In modo più con-sapevole