Where is the wisdom we have lost in knowledge?
Where is the knowledge we have lost in information?

(T.S. Eliot, The Rock, 1934)

L’epoca nella quale stiamo vivendo si può ribattezzare a tutti gli effetti l’epoca dei big data. Il termine big data si riferisce ad un ampio volume di dati – più o meno strutturati – che in ogni istante transita nel mondo di internet, sommergendo aziende, organizzazioni, agenzie con una quantità enorme di informazioni. Il termine big data – sebbene non abbia una precisa definizione -, è ormai sulla bocca di tutti, al punto che a livello di senso comune inizia ad essere definito come “il nuovo petrolio”[1]. Attraverso l’analisi e lo studio di tali dati si è in grado di comprendere – ed eventualmente prevedere – una vasta gamma di azioni dei singoli utenti che si muovono nel World Wide Web, in primis i consumi e le preferenze personali, anche politiche. Si prevede infatti che nei prossimi decenni vi sarà una vera e propria caccia ai big data, massima forma di profitto nell’economia digitale.

È ormai noto a molti che la fortuna dei grandi colossi del digital, Google su tutti, proviene dalla vendita delle informazioni e dei dati inseriti attraverso i motori di ricerca. E se il servizio è gratis, è altamente probabile che il prodotto sia l’utente stesso. Il senso ufficiale di tale strumenti è quello di dare spazio a inserzioni pubblicitarie targettizzate in base ai gusti del singolo consumatore. È progresso, è innovazione, senza dubbio. Siamo tuttavia sicuri che tali forme di business non nascondano anche un lato oscuro, ossia che queste aziende private, creando un servizio su misura al cliente, al tempo stesso non propongano al compratore molto più di semplici merci, ma veri e propri feticci, per cui il loro modello di profitto è di carattere profondamente libidinale, andando a ledere lo spazio sacro e intimo degli individui, essendo i dati identitari una “cosa” da vendere? Chi ci garantisce che coloro che raccolgono dati delle e dalle nostre vite siano realmente in buona fede, essendo attori privati e non un’entità pubblica che può essere soggetta ad un controllo giuridico comunitario? E come possiamo sapere che tali dati non vengano usati da qualche stato autoritario sulla scia di un panottico benthamiano di nuova generazione per guidare le preferenze dei singoli in una direzione univoca?[2]

Se il dibattito intorno ai big data – e più in generale sugli effetti che la rivoluzione 4.0 rappresentata dall’avvento delle tecnologie digitali sta implicando sulle nostre vite e sulle nostre società – sta iniziando ad entrare nel vivo in ambito tech, non si può dire tuttavia la stessa cosa a livello politico, sociale e, più in generale, intellettuale. In questione, difatti, c’è molto più del semplice business, ma la stessa comprensione di umano che abbiamo ereditato dalla modernità e dal Novecento. L’uomo nell’epoca dei big data è a tutti gli effetti esso stesso un fascio di dati, un flusso di informazioni alla mercé degli apparati comunicativi; si potrebbe dire che ognuno è ciò che pubblica di sé. Dimmi come interagisci sul web e ti dirò chi sei. Nella società dei big data ognuno di noi è uno snodo di informazione all’interno di una rete più ampia: come fare per non scadere, da un lato, in un mero relativismo/prospettivismo per cui 1 vale 1 e, al contempo, non ricadere in logiche reazionarie che vedono nell’avvento delle nuove tecnologie uno strumento da avversare in maniera simil-luddista? E come fare per tentare di dare una soluzione ai conflitti tra pubblico e privato, così come tra privacy ed esposizione mediatica, cercando di valorizzare sia le persone che le comunità? Tale situazione aggiunge ulteriore complessità all’elaborazione una visione sociale, politica ed economica che si confaccia all’umano in quanto tale.

Il punto nevralgico di una tale critica credo che sia il tema della relazione; sappiamo infatti con Heidegger – e con tutta la fenomenologia del Novecento – che una “cosa” assume senso solo all’interno di un contesto relazionale. L’identità è sempre in rapporto con l’altro e con l’ambiente. Nell’epoca dei big data la relazione è tutto; di fatto ognuno di noi si riconosce a parte dall’intreccio di rapporti che tessiamo con gli altri e, a tal proposito, possiamo benissimo parlare di economia relazionale. Questa economia, tuttavia, è generativa o meramente libidinale? Guardando l’evoluzione del capitalismo negli ultimi dieci anni, non avremmo dubbi a propendere per la seconda opzione. Il capitalismo, come è sempre avvenuto nella storia, dopo la crisi del 2008 ha trovato nuovi bacini, nuovi mercati, nuove realtà in cui prosperare e aumentare la propria volontà di potenza. In una realtà liquida, tale bacino non poteva che essere un realtà virtuale, ossia il web, in particolare i social media e il commercio di big data. Come dopo la storica crisi depressiva di fine Ottocento vi è stata la corsa al Colonialismo, così dopo il 2008 vi è stata la corsa verso il nuovo oro nero. Le sfide geopolitiche, economiche e sociali da qui ai prossimi dieci anni si giocheranno su questo terreno. È la psicopolitica, ossia il potere che trova spazio di guadagno e di crescita all’interno del mondo immateriale degli individui stessi (e non più nel continente africano, per esempio), mondo che la vulgata neoliberale dagli anni Ottanta in poi ha contribuito a creare con la progressiva separazione ed erosione del pubblico e del privato, con l’ideale di realizzazione del sé sociale, oppure con la separazione tra sentimento e ragione, tra emozioni e intelletto dal punto di vista antropologico. Non ci sorprende affatto, perciò, che il disagio dell’uomo contemporaneo sia di carattere psichico. Le nuove tecnologie, se non educate, rischiano di andare ad inquinare l’intimità dei singoli in vista del mero profitto – che è sì un valore, ma non in sé e sempre in relazione con la complessità del reale – e rilegando l’umano al solo valore di esposizione. In un’economia che si pone sempre più relazionale, occorre andare oltre alla sola manifestazione libidinale, che è puntuale e momentanea. Ora infatti, nell’epoca dei big data, dove ognuno è incentivato ad esporsi, a comunicare i propri stati d’animo online, assistiamo all’emergere di un’accelerazione senza precedenti verso il riconoscimento, che dal punto di vista economico è anche profitto; i dati che viaggiano attraverso la rete sono sempre più veloci, più voluminosi, più variegati, più complicati da analizzare. Il tempo si appiattisce sull’istante e si perde la prospettiva sul lungo termine; ciò che conta è farlo prima e farlo più velocemente.

Non sappiamo cosa direbbe Aristotele dei nostri tempi, tuttavia scomodandolo possiamo sostenere con lui che l’uomo non solo è sintesi di dati analizzati da algoritmi, ma è primariamente un animale sociale che agisce in vista di fini e tali fini sono beni. L’uomo è un animale sensato che agisce mosso da speranza, ossia è rivolto al futuro nelle sue relazioni. L’uomo ha sempre da nascere e in ogni nascita cerca sempre un significato che vada al di là dell’istante o della propria realizzazione come sé sociale. L’uomo è in grado di iscrivere la propria prassi in una visione più ampia, di trascendere la fattualità. Un tempo “eterno presente” è quello della beatitudine, del nirvana, non della mondanità. È l’eccezione, non la regola. Inoltre possiamo aggiungere che l’uomo ha un sistema neurologico e psicologico che è ancora identico a quello del primitivo, i cui stimoli erano decisamente inferiori rispetto a quelli attuali. Le emozioni – per esempio la paura – avevano un riferimento reale, ossia indicavano il vero pericolo di soccombere. Da lì scattava il meccanismo per una reazione. Determinate sofferenze sono invece connaturate a questo capitalismo 4.0; non riuscendo a elaborare una tale mole di stimoli, dati e informazioni a livello di immagini, il cervello umano è sotto costante pressione e stress, col rischio di incombere continuamente in un burnout perché non è in grado di riconoscere il reale pericolo dal presentimento di esso. Come l’avvento dell’industrializzazione ha comportato l’inquinamento del pianeta, così l’avvento del digitale sta intasando le nostre coscienze. Più trasmettiamo noi stessi – secondo il celebre motto di YouTube – più rischiamo di perdere energie vitali, nonostante si guadagni in visibilità e denaro.

Nell’epoca dei big data si parla perciò sempre più di benessere e si auspica che il lavoro nelle imprese non sia burdening perché, così facendo, rischiano di manifestarsi patologie a carattere fisico e psichico per i dipendenti. Parliamo di sacrosanti diritti verso la persona e il lavoratore. Tuttavia non ci rendiamo conto che tutti quanti noi – volenti o nolenti – siamo dipendenti nell’epoca dei big data; “dipendenti da”, con riferimento ai grossi attaccamenti che i social possono suscitare a livello egoico-narcisistico negli individui, ma al tempo stesso “dipendenti di”, ossia attraverso le nostre attività nei vari siti e social noi contribuiamo al profitto di aziende private, senza ricevere nulla in cambio se non qualche scarica di adrenalina ogni volta che vediamo un like sul nostro post[3]. Come se ognuno di noi facesse sapere “naturalmente” alla Fiat le proprie abitudini e la Fiat ne guadagnasse, arricchendo se stessa e non la comunità o noi stessi. Siamo non solo consumer, ma altresì prosumer, dove il pro– indica un tendere verso, un dirigere innanzi, una non-passività. Tale particella la ritroviamo anche in pro-dotto, in pro-getto o in persona, come pros-opon. Di fronte a tali scenari, ognuno di noi è dunque “spinto” ad esibirsi, a rivestire un ruolo attivo, senza tuttavia avere nulla in cambio che possa inaugurare un’esistenza il più conforme possibile al desiderio radicale umano che è sì connaturato all’ambiente, ma che rivendica in ogni istante la propria singolarità. Il web, infatti, offre “opportunità”, che altro non sono che mere possibilità, potenzialità che, se non accompagnate da azioni concrete in grado di attualizzarle, rischiano di saturare l’immaginario mentale e collettivo.

Occorre dunque comprendere come mettere in atto pratiche generative all’interno di questo contesto. Da questo punto di vista ci vengono in aiuto tutti i casi di quelle persone, imprenditori, manager, cittadini ecc… che decidono quotidianamente di sviluppare pratiche differenti rispetto a quelle della vulgata comune di stampo libidinale, vedendo nella relazione in grado di dotare l’altro nella sua inalienabile unicità un’occasione per sviluppare se stessi e le proprie imprese smarcandosi dalla fissità ego-riferita nella quale il pensiero bloccato sulla rete dei big data come unico strumento di interpretazione del reale, ivi delle relazione, ci costringe a sottostare. Consci del fatto che delle nuove tecnologie non ne possiamo fare a meno – pena il ricadere in una prospettiva anacronistica e demagogica –, un discorso generativo all’altezza dei tempi attuali è giusto che metta al centro della propria proposta etica sull’agire degli individui e delle comunità la formazione, l’educazione e la coscienza affettiva in ambito relazionale; nel caso specifico dei big data, mettere in guardia le persone dalle conseguenze che implicano il postare, il condividere, il rendere pubblica la propria identità per un’azienda privata che è strumento pubblico, sia verso se stessi che verso gli altri. Ritengo perciò che la critica sociologica, filosofica e artistica tout court debba “graffiare” ulteriormente sul tema della contribuzione/dotazione e mostrare come tale tema non sia soltanto una proposta tra le varie, ma che si tratta di una strada necessaria – ma non sufficiente – per aprire nuovi scenari di ricerca a partire da una problematica reale. Ossia che il paradigma generativo può offrire un contributo a mettere in luce sia i problemi stessi insiti nella rivoluzione 4.0, che le soluzioni, così come essere promotore di politiche che provino a ricostruire quel nesso tra pubblico e privato che è andato perso dagli anni Ottanta in poi (e che le aziende del tech hanno sfruttato subito per massimizzare i profitti) partendo da ciò che è più immediato – perciò maggiormente sfruttabile economicamente – dell’uomo, ossia il sentire. Meglio ancora, la percezione. E da lì iscrivere tutto ciò che è libidinale in un contesto antropologico più ampio, che non appiattisca l’umano sul mero fascio di dati virtuale, nonostante questo sia ormai un aspetto esiziale dell’uomo. Occorre quindi andare a scoprire l’ordo amoris, un ordine affettivo che è al contempo espressione di una ragione. Quella dei big data è una questione che interroga anche il cosiddetto “post-umano”, in particolare il tema della fragilità. In una realtà in cui tutto è disinibizione, che ne è della vulnerabilità umana che si sperimenta nell’intimità? Ognuno di noi, dunque, è chiamato a mettere in atto delle pratiche che siano il più confacenti possibile ad un agire generativo, così come dalla parte delle aziende digital e delle istituzioni è necessaria una presa di coscienza di fronte alle degenerazioni che tali strumenti tecnologici possono comportare, in primis per i loro profitti. Il digital, a suo modo, è anche reale e, per tale motivo, accanto ad una riflessione sul digitale, è auspicabile una presa di coscienza anche intorno al reale concreto – ossia una riflessione sulla vita, la morte, la sessualità, ecc…, ossia su tutto ciò che è altro-da-noi e impatta su noi stessi indipendentemente dalla nostra volontà –. Senza alcuna demonizzazione verso le meraviglie della scienza e della tecnologia, ma sempre con sguardo vigile, attento e consapevole sulla complessità dei big data, in vista del bene e dei singoli e delle comunità.


[1] Si veda: https://www.wired.it/attualita/tech/2018/04/07/nazionalizziamo-big-data/. Sul tema della nazionalizzazione dei big data e, più in generale, dei social può essere interessante la proposta avanzata da Jeremy Corbyn: https://www.rivistastudio.com/facebook-corbyn/.

[2] Si veda, per esempio, il recente scandalo di Cambridge Analytica.

[3] A meno che non siamo “lavoratori digitali”, ossia svolgiamo professioni digital.