L’attuale crisi dovuta alla propagazione del coronavirus impone riflessioni sugli strumenti di finanza pubblica, da mettere in pratica senza pregiudicare il nostro futuro. Molti dei problemi del nostro sistema Italia, è inutile negarlo, sono legati proprio alla questione del debito pubblico e degli effetti negativi del suo enorme peso sul futuro delle nostre comunità. Addirittura a causa di questo debito pubblico, si rischia di mettere in discussione i fondamenti della nostra comune casa europea. Siamo veramente arrivati a un punto di non ritorno?
A sentire tanti, il nostro futuro è ipotecato: il finanziamento di politiche di assistenza e di ripresa economica sarebbe fattibile solo a discapito della sovranità nazionale. Infatti, il mantenimento degli attuali standard di solidarietà imporrebbero politiche di deficit spending, le quali, tuttavia, a causa dell’inevitabile incremento del debito pubblico, costituiscono anche l’anticamera del fallimento dei conti pubblici e il conseguente necessario soccorso condizionato delle istituzioni europee.
È veramente così? A nostro avviso, la risposta è no, c’è un’altra strada: la valorizzazione dei beni comuni. In particolare, va detto che l’attuale mancanza di risorse finanziarie pubbliche riguarda soprattutto le risorse erariali, ovvero le risorse che derivano principalmente dalla fiscalità generale. È chiaro che in periodi di poca crescita o recessione, il gettito fiscale diminuisce oppure va a colpire patrimoni o il risparmio delle famiglie (ovvero reddito già tassato).
E allora, come fare? Ci dobbiamo rassegnare a una sanità privata e non più pubblica, alla privatizzazione dell’acqua ecc? Certamente no. Tuttavia, in via preliminare, occorre chiarirci sui concetti: non è corretto considerare beni di interesse pubblico, solo quei beni gestiti dallo Stato o enti pubblici. Un bene di interesse pubblico è tale perché concorre al bene comune.
Per esempio, rientrano nella categoria dei beni di interesse pubblico anche l’educazione scolastica svolta dalle scuole paritarie, oppure, l’assistenza sanitaria svolta dagli ospedali religiosi, oppure ancora l’assistenza e la previdenza svolta dalle casse e dalle mutue professionali ecc. Si tratta infatti di soggetti privati, i quali svolgono le proprie funzioni di rilevanza pubblica, escludendo qualsiasi forma di lucro soggettivo. Pertanto, ciò che importa non è tanto la natura statale o meno del proprietario del bene di interesse pubblico, quanto piuttosto la funzione al servizio del bene comune svolta sempre da quel proprietario. Riusciremo dunque a trovare un’alternativa all’attuale impasse finanziaria, se allarghiamo il concetto di bene di interesse pubblico; diamo rilevanza all’ambito e alla portata della funzione di interesse pubblico, ponendo l’attenzione sul rischio dell’esclusione dei fragili.
Fatta questa precisazione, poiché anche quegli enti privati che svolgono servizi di rilevanza pubblica hanno bisogno di risorse, è arrivato il momento di riflettere sulla funzione del risparmio delle famiglie. Il risparmio delle famiglie, essendo il frutto del lavoro virtuoso delle famiglie italiane, rappresenta, infatti, esso stesso, un bene di interesse pubblico o bene comune, e può essere investito e destinato direttamente a fini mutualistici, senza il bisogno di ulteriore tassazione patrimoniale o prelievo forzoso.
Oltretutto, la recente storia economica ci insegna che il risparmio delle famiglie costituisce un forte indice di stabilità economica e finanziaria di un paese, soprattutto in periodi di crisi. Si noti a tal proposito, partendo dall’esperienza della crisi americana dei mutui subprime, che il debito privato è pericoloso per la tenuta di un paese almeno come quello pubblico. Non è un caso che la tutela del risparmio costituisce un bene costituzionalmente rilevante (art. 47 Cost.).
Troppo spesso ci dimentichiamo che l’Italia è stata costruita (e ricostruita più volte) non grazie ai bottini di guerra o agli utili delle nostre multinazionali, ma grazie alla capacità di risparmio delle famiglie italiane o alla lungimiranza di qualche famiglia sul territorio. In concreto, pensare che solo la crescita economica e la fiscalità generale oppure il deficit di bilancio pubblico possano finanziare politiche statali di assistenza e di solidarietà, è un modo poco coraggioso di affrontare il problema.
Al contrario, in ossequio al principio di sussidiarietà, occorre immaginare un impiego diverso delle risorse finanziarie delle nostre comunità (famiglie, associazioni di famiglie, enti del terzo settore e imprese). Fino a oggi – come già detto – sono stati il debito pubblico o le risorse fiscali prelevate principalmente grazie alla crescita economica, a garantire lo svolgimento delle funzioni di interesse pubblico.
Da domani, si può immaginare di mettere al servizio del bene comune (e quindi del benessere delle famiglie), il patrimonio rappresentato dal risparmio delle famiglie, e ciò senza la necessità di ulteriore prelievo fiscale oppure di sottoscrizione di nuovo debito statale. A questo scopo, si può riflettere sull’attribuzione di un ruolo centrale agli enti del terzo settore e, in particolar modo, alle imprese sociali, i quali possono già ora destinare i patrimoni delle comunità a finalità di utilità sociale, conciliando logiche di efficienza con l’universalità dei beneficiari dei servizi di interesse pubblico.
In conclusione, occorre uscire dalla inutile polarizzazione tra statalismo o privatizzazione. Entrambi i punti di vista rischiano una deriva ideologica, quando metodologicamente si perde di vista la realtà. Non dimentichiamoci che quello attuale è un cambiamento d’epoca; non rimaniamo perciò incollati a modelli e paradigmi passati, come la fiscalità e la crescita economica, ma apriamoci, con speranza e senso di responsabilità, a un maggior coinvolgimento delle nostre comunità, che, oltre a disporre del risparmio delle famiglie, conoscono i loro bisogni meglio di qualsiasi altro.