I significati di “margine” e dei termini derivati come “marginalità” hanno il pregio di sintetizzare molti aspetti che caratterizzano il nuovo assetto sociale ed economico rispetto al quale viviamo una faticosa fase di transizione. Da una parte, infatti, rimandano a ciò che è periferico rispetto a dimensioni di centralità. E questa distanza si misura in termini di esclusione (ad esempio guardando all’accesso diseguale a risorse di vario tipo), ma al tempo stesso richiama possibili gradi di libertà e innovazione rispetto a meccanismi più codificati e rigidi. Per cui, soprattutto oggi, l’innovazione sociale ma in qualche caso anche tecnologica nasce in contesti a vario titolo “periferici”. L’innovazione si può rappresentare quindi come un vettore che si propone di esplorare uno spazio reale (spesso marginale), dilatando lo spazio del possibile. Un’innovazione che si genera esplorando le periferie del proprio ecosistema, nella ricerca del “possibile adiacente” (S. Kauffman).

La marginalità però non definisce solo un perimetro, ma richiama un altro aspetto importante ovvero la disponibilità di risorse aggiuntive, una specie di dispensa che consente di intraprendere nuove attività e non solo di gestire l’esistente. In termini imprenditoriali i margini quindi contano: chiamano in causa funzioni organizzative come la ricerca e sviluppo o gli spin off che ampliano e diversificano le attività “core”. Ma soprattutto i margini sono i surplus (economici ma non solo) che consentono all’impresa di crescere e svilupparsi. Marginalità non solo da distribuire tra gli shareholders ma da reinvestire nella mission dell’impresa.

Proprio su questa declinazione del margine come “profitto” si gioca la “grande trasformazione” attuale che coinvolge un caposaldo dell’economia capitalista, ma anche di quella sociale. A ben guardare infatti negli utili decenni l’avvento dell’impresa sociale nel contesto delle organizzazioni della società civile ha modificato il dato “culturale” della non lucratività. Un primo passaggio – che si potrebbe sintetizzare da no-profit a non profit – segna il distacco dalla mera redistribuzione di risorse per ovviare ai fallimenti dello stato e del mercato alla creazione di valore che viene completamente reinvestito per lo sviluppo di un progetto autonomo e alternativo, riconducibile al ruolo distintivo e peculiare di soggetti orientati a produrre valore sociale, intraprendendo.

Il secondo passaggio – da nonprofit a low profit – prevede che una parte del surplus possa essere utilizzato per remunerare il rischio assunto da soci e investitori dell’impresa sociale. Ciò al fine di soddisfare un più ampio spettro di portatori di interesse orientati a contribuire alla produzione di beni e servizi di interesse generale e di innalzare la scala dell’impatto di attività che se attingessero esclusivamente alla capacità di autofinanziamento interno non riuscirebbero probabilmente a far fronte alle sfide sociali e ambientali che contraddistinguono la società attuale.

Questa evoluzione è complessa non solo perché sollecita le radici culturali più profonde del settore sociale, ma perché in questa fase storica si assiste a strategie evolutive e/o di riposizionamento dell’economia di mercato e di quella pubblica. Evoluzioni che, nel loro complesso, non sempre assecondano la capacità produttiva dei soggetti sociali, limitandone così l’impatto che oggi si misura sulla costruzione di un nuovo paradigma (innovazione di rottura) e non semplicemente sull’introduzione di correttivi (innovazione incrementale).

Ad influenzare questa dinamica contribuisce pesantemente il governo dell’innovazione tecnologica.

Allo stato attuale il valore creato dal digitale non può prescindere, nelle sue diverse applicazioni, dalla dimensione “sociale” diventata elemento centrale del business model delle piattaforme. Il dislocamento di questo asset intangibile, da una dimensione esterna (esternalità) ad una interna (input) è all’origine di un duplice effetto. In primo luogo in forma di profitti che vengono estratti da transazioni tra pari, evitando, o limitando, i costi di struttura (che rimangono spalmati sui singoli contraenti) e moltiplicando le occasioni di matching grazie a piattaforme capaci di intermediare su vasta scala non solo risorse finite, ma elementi di natura relazionale e simbolica. In secondo luogo controllando patrimoni intangibili che riguardano essenzialmente dati relativi a comportamenti sociali ed individuali che, anche in questo caso, vanno a costituire profili sempre più precisi in termini di preferenze (risorse per la sopravvivenza), ma anche di desideri e aspirazioni legati a bisogni che stanno nella parte alta della scala di Maslow e quindi autorealizzazione di sé, spesso attraverso medium di “condivisione” e “collaborazione”.

In attesa di “riforme strutturali” come la trasformazione dei patrimoni in “commons” auspicata da Jeremy Rifkin, piuttosto che la costruzione di cooperative di utenza in grado di negoziare il riscatto e la successiva rivendita dei dati(naturalmente a condizioni più vantaggiose), oppure ancora l’appropriazione di una parte dei profitti attraverso il ridisegno in senso inclusivo della governance delle piattaforme è utile guardare anche agli elementi di vantaggio strutturale dell’economia sociale. Elementi che, in buona sostanza, coincidono con la sua dimensione coesiva.

Si tratta, in sintesi, della capacità di riconoscere il valore di una risorsa nella misura in cui la fruizione e manutenzione di quest’ultima è condivisa. Un contesto ambientale e paesaggistico, un fattore culturale, una infrastruttura economica e sociale acquisiscono nuova rilevanza (e in questo senso si rigenerano) come risorse perché diversi attori ne riconoscono le peculiarità, individuando una missione e dotandosi di un sistema di gestione che consente di metterle a valore in quanto “comuni”. In questo quadro la presenza di una infrastruttura digitale distribuita e in grado di aumentare esponenzialmente la connettività facendo leva, guarda caso, su modelli di social network può esporre al rischio di colonizzazione il campo del sociale, ma al tempo stesso aprire lo spazio per quelle che, ancora Rifkin, definisce “economie di scala non centralizzate”.

Suggestivo, ma come si realizzano? Rovistando tra buone pratiche che hanno intenti di trasformazione sistemica si possono identificare almeno tre percorsi.

  • Il dono e la reciprocità nel business model: l’economia su base cooperativa si basa principalmente su scambi di mercato, ma sempre più spesso per generare valore e raggiungere il punto di break-even occorre attrarre e combinare anche risorse non market (donazioni e contributi, economici e in prestazioni d’opera) in modo non estemporaneo. Un nuovo mix di risorse per la sostenibilità.
  • Attivazione di una molteplicità dei luoghi: la coesione è un bene che si coltiva in una dimensione di luogo, dove sono disponibili, perché opportunamente manutenuti, sistemi relazionali densi capaci di produrre significati che, sempre più, costituiscono elementi di valore in termini culturali e simbolici.
  • Includere la diversità nella governance: i riti e le pratiche formali di gestione del potere legati a processi decisionali contribuiscono, anch’essi, a incrementare l’efficacia della produzione e redistribuzione del valore, rompendo l’equilibrio legato ad assetti che invece si basano sull’esclusività dell’accesso (e poco importa che si faccia riferimento a possessori di quote di capitali o a pari che, sulla base di criteri stringenti di omogeneità mutualistica detengono il controllo societario).

La bontà di questo modello è da valutare anche rispetto al rischio di un ritorno al passato, ovvero un ambito sociale che ridiventa “no-profit” perché si fa carico esclusivamente di gestire misure correttive di fallimenti delle sfere pubbliche e di mercato.