Una delle astuzie della modernità è stata quella di trasformare i legami (dal sanscrito lingami, che significa “mi piego per avvolgere”, e dunque anche “abbraccio”) prima in catene da cui liberarsi e quindi in contratti a facile recesso, in nome della flessibilità e dell’efficienza del sistema, o di un diritto all’autorealizzazione che vede il vincolo come un ostacolo anziché un’opportunità.
Ma il legame non toglie libertà: al contrario, aggiunge significato, sostanza, sapore. E anche senso di realtà: “nessun uomo è un’isola”, scriveva il poeta inglese John Donne. Ogni immagine di assoluta autosufficienza, più che un ideale, è un controsenso, una contraddizione in termini, una negazione delle evidenze più elementari: infatti nasciamo dipendenti, e non per nostra scelta, e moriamo fragili e bisognosi delle cure altrui. Autosufficienza, dunque, è anche un’illusione e un inganno. L’assolutizzazione di un frammento, che passa in un soffio, della totalità della nostra esistenza. Un’ideologia potente che – oggi possiamo dirlo – ci ha resi più schiavi di prima: sottomessi a nuovi dèi e, in più, anestetizzati e indifferenti gli uni agli altri.
Si è liberi legandosi a qualcosa e in relazione a qualcuno, non tagliando tutti i legami. Miguel Benasayag ricorda che nell’antichità era lo schiavo a essere privo di legami. Che, anche quando c’erano, non contavano nulla: in quanto proprietà di un padrone, egli veniva tranquillamente rimosso dal suo contesto, dalla famiglia, dalle amicizie. Viceversa, il libero aveva molti legami, molte responsabilità. È singolare, scrive Benasayag, che oggi definiamo la libertà coi tratti di quella che era un tempo la schiavitù!
Lo slegamento di tutti i legami sociali – da quelli affettivi a quelli istituzionali – è diretta conseguenza dell’idea che, in presenza di più opportunità̀, essere liberi significhi inseguire nuove possibilità in assenza di vincoli.
C’è un doppio equivoco qui, che ha prodotto una serie di dolorose conseguenze. Da una parte l’idea della ‘libertà negativa’, come assenza di determinazioni esterne: un’idea, in fondo, adolescenziale della libertà, che si può esprimere con ‘nessuno mi può dire quello che devo fare’. Dall’altro una libertà positiva come autodeterminazione (autoreferenziale dunque, e non relazionale) che di fatto viene a coincidere con l’aumento quantitativo delle possibilità di scelta: più cose posso scegliere, più sono libero. Una trappola, perché se poi scelgo (se mi lego a qualcosa) limito la mia libertà. Una trappola che Maria Zambrano ha definito “il vuoto di una libertà negativa”: “e così l’uomo rimarrà con una libertà vuota, il vuoto del suo essere possibile. Come se la libertà non fosse altro che quella possibilità, l’essere possibile che non può realizzarsi, privo dell’amore che genera” (da Frammenti sull’amore).
C’è allora un rapporto paradossale tra legame e libertà: meno legame accetto per esser più libero, più mi trovo incatenato a un vuoto, a una libertà che esiste solo se rimane ‘virtuale’, in potenza. Se invece accetto il legame, che è anche un vincolo, costruisco le condizioni per un esercizio generativo della mia libertà, un far essere qualcosa che abbia valore, meriti il mio impegno, ricucia il legame sociale. La libertà non esclude il vincolo, anzi in un certo senso lo richiede. E il non vincolo non coincide affatto con la libertà: anzi, gli esiti dell’epoca delle passioni tristi ci dicono che forse la esclude.
Il legame è sempre legame con altri, e il desiderio è sempre desiderio di altro. Forse, in fondo, la nostra epoca ha un problema con l’alterità. Se l’obiettivo ė l’autorealizzazione, l’altro non può che essere ostacolo o strumento, dunque eliminato o assimilato all’io, posseduto come una cosa, cancellato nella sua alterità che mi fa esistenza, che mi limita.
Dolorosamente dobbiamo riconoscere che, nella società dei liberi, si sente un retrogusto sadiano. Se l’altro è costitutivamente estraneo al mio mondo, se il legame sociale è solo un vincolo negativo alla mia espansione, se la solidarietà è impossibile dato che ciascuno è perso “dietro ai fatti suoi” (come cantava Vasco Rossi in un brano che è stato l’emblema di un’epoca), allora possiamo incontrare l’altro solo furtivamente, per un utile, forse piacevole, ma necessariamente breve scambio funzionale o per un’intensa quanto fugace fusione emozionale.
Se siamo individui isolati che si muovono alla ricerca di nuove possibilità messe a disposizione, in modo crescente e sempre più efficiente, dal sistema, allora il legame è solo un impedimento o uno strumento, e la relazione un’increspatura.
Ed è proprio questo il punto: aver voluto negare il legame indissolubile tra libertà individuale e vita sociale ha aperto la strada a quella involuzione di cui, oggi, in tanti pagano le conseguenze.
Per quanto dolorosa, la crisi nella quale ci troviamo rivela un tesoro che non va perduto: la consapevolezza che c’è una realtà oltre il nostro Io. Un Io che abbiamo appena “liberato”, ma sul quale non si può far collassare l’intera realtà. Non c’è dubbio che la crisi sia scoppiata a causa delle degenerazioni del sistema finanziario e dello strapotere dei mercati sulle democrazie. Ma, nel quadro della nostra società, il sistema finanziario non è un’anomalia.
Naturalmente il legame non è buono di per sé: può essere possessivo, oppressivo, violento, come la cronaca anche recentissima tristemente testimonia. Il legame che libera, abilita, autorizza è un legame qualificato: un legame generativo. Fatto di desiderio, di iniziativa, di cura, e anche di ‘passaggio di testimone’, di autorizzazione delle realtà che si è contribuito a far esistere a prendere in mano il proprio destino, diventando autori e attori protagonisti.
Ripensare il legame in termini generativi consente allora di affrontare in modo nuovo le sfide del presente.
Se l’obiettivo è quello di valorizzare e, in alcuni casi, ricostruire legame sociale, diventa cruciale saper valorizzare le possibilità di contribuzione, di iniziativa, di risocializzazione dei rischi, di condivisione della protezione, di riconoscimento reciproco dei bisogni e della comune condizione umana di finitezza e precarietà. Obiettivo che può essere perseguito in ambiti anche molto diversi lavorando sia per aggregare la domanda – in modo da poter fornire risposte in grado di includere, nella loro stessa formazione, elementi di socialità – sia per riorganizzare l’offerta dei servizi. Con l’obiettivo di valorizzare i legami sociali (esistenti o potenziali).
Ciò concretamente significa lavorare per sviluppare forme di welfare di comunità, concepito come un assetto istituzionale capace di far leva sulla socialità diffusa, e così contribuire a ricostituire il senso di un legame sociale che si va perdendo.
Nella convinzione che, quando si parla di bisogno e di fragilità, solo il legame sociale può aiutare a moderare e orientare la domanda, a qualificare i servizi, a rafforzare reciprocità e coesione, a stimolare le risorse personali.
A generare un mondo un cui vale la pena ed è bello vivere.