Il diritto è una pratica vivente, intrinsecamente metastabile, una chiusura creativa, un continuo fissare la vita in forma di norma sottoposta alla interpretazione di una mutevole coscienza sociale che, come scrive Sandro Chignola, “limitando la proliferazione indefinita delle pratiche e ordinandole in serie ripetibili, apre varchi per la loro ridefinizione”. E’ in questa intima connessione con il continuo movimento vitale che risiede il potenziale generativo del diritto, la sua capacità di abilitare risorse e possibilità nuove, di recepire il desiderio istituente, di fondare istituti capacitanti. L’unica possibile certezza del diritto è processuale, nel senso che non possono esistere né giustizia né ordine nella fissità della norma: il diritto è sempre e soltanto individuazione: un processo interpretativo ed un agire performativo, situato, contestuale che, misurandosi con la vita, i desideri e le capacità dei viventi ne consente, spesso per movimenti laterali di scarto, la riproduzione creativa.

L’art. 55 del Decreto Legislativo 117 del 3 luglio 2017, detto “codice del terzo settore”, la sentenza 131/2020 della Corte Costituzionale e le linee guida approvate con decreto 31/03/2021 dal Ministro del Lavoro in tema di coprogettazione e pratiche di amministrazione condivisa tra pubblica amministrazione e terzo settore rappresentano un bel esempio di questa dinamica.

L’evoluzione del sistema di welfare italiano degli ultimi trenta anni, specie a livello locale, ha portato a due “stili” idealtipici nella relazione operativa, giuridica ed amministrativa tra enti di terzo settore e Pubblica Amministrazione: lo stile concorrenziale, basato sugli appalti, il sovradimensionamento progressivo dei service provider e la loro competizione per aggiudicarsi contratti tesi ad integrare un catalogo di prestazioni, e lo stile cooperativo, spesso paradossalmente trascurato proprio dalle più grandi cooperative sociali, basato sulla condivisione della funzione pubblica, le procedure negoziate e il tentativo di raggiungere insieme degli obiettivi di benessere di per sé ulteriori rispetto alle prestazioni strumentali che ne compongono il percorso. Sempre a livello idealtipico, il primo stile ha dato luogo ad una postura fortemente estrattiva da parte degli attori coinvolti, il secondo ad una postura potenzialmente contributiva, mediante la quale sono cresciuti nella prassi, prima ancora che nel diritto, percorsi di significazione reale e concreta del principio di sussidiarietà enunciato dall’art. 118 della Costituzione. Dopo anni di osservazioni, dibattito, proposte, legislazioni locali, pareri sovente contradditori dei diversi interpreti, proprio quando il principio competitivo alla base del codice dei contratti pubblici, già detto “degli appalti”, sembrava doversi imporre quale regola preminente ed inderogabile, l’art. 55 del Codice del Terzo Settore prima, l’interpretazione della Corte Costituzionale poi e infine il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali con un provvedimento di linee guida, sono giunti ad affermare esattamente il contrario. Laddove in gioco sia la contribuzione al bene comune e, sotto il profilo soggettivo, chi condivide la funzione pubblica della Pubblica Amministrazione nel perseguirlo sia un Ente di Terzo Settore, il diritto vivente ne prende atto e si spinge in avanti: a cooperazione diviene principio in luogo della competizione, la amministrazione diviene partecipata, i rapporti paritari, senza che per questo nessuno – lo sottolinea la Corte Costituzionale e lo ribadisce il Ministro – possa eccepire alcuna violazione delle norme fondamentali del diritto europeo ed interno.

La normativa statale sulla coprogrammazione e la coprogettazione tra pubblico e Terzo settore, così come le norme applicative che ne discenderanno a livello regionale e comunale, possono dunque essere considerate senza timore di smentita, sotto il profilo formale, un esercizio di “diritto contributivo” che è in grado di abilitare, sostenere, potenziare, indirizzare il movimento vitale verso i beni comuni.

Ciò che è ora in gioco, guardando alla nuova stagione di rapporti collaborativi tra Pubblica Amministrazione e Terzo Settore che si apre, è la capacità delle parti di mantenere vitale, attraverso le loro pratiche, l’anelito contributivo che il legislatore ha istituzionalmente recepito. Non è affatto scontato, a meno che non si dia per acquisita una caratterizzazione oleografica e stucchevole del campo del Welfare e dei beni comuni e del Terzo Settore come “mondo dei buoni”, che non corrisponde affatto alla realtà che abbiamo conosciuto negli ultimi trenta anni. Se, in questo complesso e dinamico campo di gioco, gli attori sapranno assumere davvero la postura istituzionale e pratica della contribuzione, i risultati potrebbero risultare così evidenti che non è escluso il diritto vivente possa spingersi ancora oltre, e configurare sempre più, anche in termini giuridici, nuovi paradigmi dei quali l’epoca in transizione che viviamo è spasmodicamente alla ricerca. Se, per contro, la veste giuridica dell’amministrazione partecipata diverrà, anche in questo campo, una mera copertura formale per giustificare opachi nuovi equilibri in favore dei più forti e rappresentati, anche tale innovazione, come tante del passato, cadrà nella sterilità burocratica, che della generatività sociale e giuridica è un nemico fra i peggiori. Sarà allora nuovamente compito del diritto vivente trovare, con le sue complesse vie ed i suoi eccezionali scarti di lato, un nuovo ed altro equilibrio. Non è detto che sarà ancora di tipo contributivo.