L’età giovanile è per eccellenza l’età del desiderio. Il giovane è biologicamente portato ad affacciarsi al mondo mosso da quelle energie vitali e da quelle pulsioni erotiche necessarie per la costruzione di percorsi esistenziali condivisi e di un proprio senso che possa individuarlo come soggetto adulto. Eppure non è detto che tali cammini trovino sempre una direzione, anzi può succedere che sopraggiungano difficoltà e blocchi che frenano l’espressione di sé. Da generativo, il desiderio rischia di diventare stagnante. E portare alla luce, con sé, quel senso di vuoto, di smarrimento, di perdizione che si manifesta in tutta quella vasta gamma di emozioni che abitano lungamente la nostra società e, soprattutto, la vita dei giovani.
Cosa significa perciò desiderare? E che rapporto vi è tra il desiderio e il vuoto? Quali sono le ragioni e le conseguenze del vuoto? E si può tornare a desiderare, superando il vuoto?

Il 22 aprile si è tenuto il quarto incontro del ciclo di Conversazioni Generative promosso da La Prossima Generazione (clicca qui per recuperare il webinar sul canale YouTube) che ha visto protagonisti Silvia Galeazzi, giornalista e fondatrice di Women’s Health and Fitness; Marta Maiocchi, laureata in Scienze dell’educazione che, dalla Fondazione Arché cui appartiene, ci spiegherà i motivi della sua tesi; Padre Giuseppe Bettoni, fondatore e presidente di Fondazione Arché. L’incontro è stato moderato da Stefano Carpani, psicologo junghiano e sociologo.

Partendo da “I vizi capitali e i nuovi vizi” di Umberto Galimberti, il dott. Carpani racconta del settimo, quello del vuoto, dicendo come questo sia dedicato ai giovani, non tragico come gli altri vizi. Perché? Perché nei giovani tutto è modificabile; il vuoto allude al nichilismo giovanile come speranza delusa circa la possibilità di reperire un senso. Vuoto, senso, desiderio. Come si manifesta questo vuoto? Solitudine, che non è la disperazione che attanaglia chi spera, ma una sorta di assenza di gravità di chi si trova a muoversi nel sociale, come in uno spazio in disuso. In questo anno, aggiunge il moderatore, non ci stiamo muovendo in uno spazio in disuso, dove non è il caso di lanciare messaggi senza interlocutori, senza quell’orecchio emotivo che tutto fa se non riecheggiare il proprio grido.

Padre Giuseppe Bettoni comincia a parlare di vuoto, di come questa sia una realtà con diverse sfaccettature esistenziali, antropologiche, filosofiche, di senso. Il vuoto è nella misura in cui conferma una presenza antecedente. La sensazione di perdere, di non avere qualcosa, rispetto a ciò che c’era, o rispetto a ciò che si pensava ci fosse. La figura di Giobbe è una figura emblematica per restituire il senso di “vuoto”. Giobbe fa l’esperienza dell’intervallo: il vuoto fra una nota e l’altra; uno spazio dove ha tutto, poi perde tutto, e poi riconquista. L’intervallo non è innocuo: dètta la musica, la melodia. Dètta il senso della vita. Il vuoto rimanda quindi a una dimensione profonda legata al desiderio. Per quanti oggetti riempiano la vita di Giobbe, per quanta soddisfazione possa avere, Giobbe non è sazio. E perdere tutto riaccende quel desiderio che è nascosto dietro alle cose e che l’uomo soffoca sotto la marea di pesantezza, di sovrastrutture. Giobbe rientra in se stesso, nel silenzio del vuoto, e trova lo slancio del desiderio che gli permetterà di fare quel salto nel vuoto. La fiducia dell’altra nota, dell’altra sponda, che ci sia qualcuno al di là. L’atto di fede più genuino.
La fatica del vuoto nei giovani è proprio fatta di questo: un riempimento costante, iper-impulsi accattivanti che non li attrezzano ad affrontare il vuoto come un atto di fede nella vita. Questa dimensione è sperimentata proprio nell'”archiviare” il prima come cancellato, coperto, nascosto, e invece può e deve diventare la pausa fra una nota e l’altra. Il silenzio, il vuoto, devono insegnarti a performare un’altra partitura; a fare della tua vita un’altra melodia.

Marta Maiocchi è una educatrice giovanissima. Lavora per Fondazione Arché, dove si occupa come educatrice delle mamme e dei bambini (clicca qui per scoprire di più sulla Fondazione Arché). Che cos’è il desiderio, soprattutto in adolescenza? Ha scritto una tesi in Scienze dell’educazione, che s’intitola “Aprire le porte al desiderio. Sfide educative per gli adolescenti di oggi”, cercando di definire proprio il motivo (anche etimologico) del desiderio: desìdus, “avvertire la mancanza delle stelle”. La seconda definizione che l’aveva colpita molto era “la tensione più profonda dell’essere umano; una forza che spinge ad oltrepassare i limiti della finitezza umana, per giungere a una meta più immaginata che conosciuta, fino a quando essa non si svela a compimento della ricerca”. Una caratteristica propria, dove l’uomo può vivere il desiderio ma non ne è padrone: non ne può decidere le caratteristiche o il percorso. Può cercare con la propria esistenza il compimento del desiderio, ma non può decidere come, quando, cosa desiderare. Il desiderare quindi come un percorso, e una sempre e più approfondita conoscenza di sé, perché il desiderio abita il cuore di tutti gli esseri umani. La cosa difficile è arrivare a configurarlo. Pensando a sé, ai giovani, questo percorso desiderante è il cercare il proprio posto nel mondo. Qual è, quale può essere questo posto nel mondo. La ricerca nel/del desiderare è un percorso pervio, scontrante la realtà: ciò che si desidera e si percorre non è così riscontrabile con le coordinate che la realtà ci fornisce. E qui entra in gioco il vuoto. Questo, legato al desiderio, può derivare dal fallimento, dal rendersi conto che la strada non era quella che ci corrisponde; il vuoto inteso come mancanza di desiderio, nel senso che è spento e ha bisogno di essere acceso. Quello che ha sostenuto nella sua tesi è che di fronte a questo vuoto è molto importante che entri in gioco la relazione con l’altro. Nell’età adolescenziale è fondamentale avere delle persone, adulte o meno, che attraverso il loro vivere possano trasmettere la possibilità di compimento. Nel momento in cui ci si rende conto di non intraprendere una strada certa, si pensa all’impossibilità di riuscita, di compimento. Invece, questo è per tutti. Avere delle persone che dimostrano, mostrano, ci sono nel senso che provocano il confronto, la condivisione, il fascino desiderante nell’altro, risvegliano il desiderio nell’adolescente. Mettersi quindi in gioco, in ricerca, rimodulando le coordinate del percorso desiderante.

Silvia Galeazzi, seguendo le parole di Marta Maiocchi, porta una testimonianza sul desiderio. Parla di sé come una persona che da giovane non aveva un’idea di desiderio, vivendo sotto quell’egida doveristica del “fare, fare, fare”. Si definiva una soldatessa, che andava avanti senza mai guardarsi indietro; ha marciato, cercando di raggiungere tutto quello che poteva. Non erano degli obiettivi personali, ma provenienti dall’esterno. Cercava il prestigio, la firma, il brand: voleva lavorare in ambienti socialmente e professionalmente riconosciuti. In questo racconto, ricorda come è possibile si possa configurare il desiderio anche senza un qualcuno che accompagni, come è stato nel suo caso, ma cercarlo, facendosi accompagnare, o cercando dei modelli. Per Silvia Galeazzi i modelli sono stati molto desideranti, presenti, molto attivi, che lasciavano un’impronta. Ha incontrato delle persone di alto livello professionale, e ha seguito loro. Voleva diventare come loro, inseguendo quei modelli che pensava potessero somigliare a ciò che voleva essere: performante, professionale, raggiungendo buoni livelli, tante soddisfazioni. Ma non era lei. Non era “tutta intera”.

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