C’è stato un tempo in cui gli adulti si prendevano in carico l’azione di indicare una via e di farlo in maniera monolitica: quella era la via ed era la via giusta. Educare voleva dire mettere in campo tutta una serie di strumenti, pratiche, ritualità e simbologie, eventi, insegnamenti che dicessero: “Si va di là, quella è la direzione e ci andiamo insieme”. I giovani e i bambini venivano inglobati in questo movimento comune che alla lunga è risultato faticoso da accettare perché faceva mancare il respiro che deriva dalla libertà, dall’apertura, dalle possibilità altre. Si è avvertita, per molti motivi, la voglia di pensare che l’educazione fosse anche un gesto opposto, che non fosse solo quello di dare una forma, ma anche quello di aprire, di liberare e permettere l’ulteriorità, di immaginare la formazione al plurale. È chiaro che, come spesso accade nelle vicende umane, questa apertura ha travolto il campo, estremizzando per molti versi l’opposta tendenza alla liquidità, che in educazione significa che tutto è giustificato in nome della singolarità. Tolto di mezzo il monolite normativo e valoriale e con esso il soggetto che lo attuava (la comunità), il gesto educativo è sembrato ridursi ad un evento del singolo nucleo, della cerchia ristretta, spesso in conflitto con tutti gli altri (si veda il rapporto scuola-famiglia) dove impera una individualizzazione assoluta rintanata nella spettacolarizzazione del privato, nella famiglia-adolescente, nella società dell’immagine.
Il ribaltamento ha messo in luce una nuova e straordinaria fragilità e complessità dell’esperienza educativa, complessità che si rivela nella cronaca dal mondo degli adolescenti, dei preadolescenti, dei bambini raccontata settimanalmente da siti, giornali, social rigorosamente adulti, che sottolineano i disagi e le sofferenze del crescere, senza soffermarsi mai troppo sulla difficoltà tutta adulta di prendersi la responsabilità del mondo che stiamo affidando ai più giovani, del loro gesto educativo.
Nel farci le loro domande, le solite domande di chi si apre alla vita (“che cosa ci faccio qui?”, “che senso ha tutto questo?”), domande che ho tante volte letto nel volto più che nelle parole dei miei studenti, i ragazzi ci interrogano e ci rivolgono l’antica domanda: “tu dove sei?”.
Rispondergli non è affatto semplice, perché tutte le facilitazioni, gli appigli a cui ci appoggiavamo (valori condivisi, regole, orientamenti di fondo, modelli sociali, dottrine), dove le mancanze personali venivano attutite e compensate dagli altri adulti, non ci sono più, le abbiamo portate via nell’impeto libertario, ritrovandoci soli, chiamati ad una testimonianza assoluta in un ambiente che abbiamo reso inospitale.

Il punto non è, per me, avere nostalgia di quel mondo passato, ma interrogarci insieme su questo mondo, con i suoi modi di stare insieme, di comunicare, di vivere e abitare la realtà. Dovremo in qualche modo dirci che cosa è importante per noi, dirci cosa siamo, fare un gesto di ascolto collettivo per ripartire dai bisogni dei ragazzi a cui rispondere con un rinnovato gesto educativo.
Uno dei miei maestri, Riccardo Massa, riflettendo sulla profondità semantica della parola “educare”, ha messo in luce almeno tre significati del gesto educativo: educare è prendersi cura, educare è portare altrove – il portare via, che io traduco anche come il portare ad esperienza, far fare un’esperienza altra -, educare è insegnare. Sono tre movimenti, tre gesti pieni di ambivalenze, contraddizioni e che restituiscono tutta una complessità non solo semantica, ma anche concreta e vitale, che vorrei restituirvi.
Cosa vuol dire prendersi cura? Che senso ha dire che educare è gesto di cura? Significa dire che educare è pratica di ascolto, attento, dell’unicità del soggetto, a quello che lui è, alla sua storia, al suo percorso, alle sue relazioni, alle sue ambizioni, al suo desiderio. Questo vuol dire che nel gesto educativo c’è sempre una dimensione relazionale, di comprensione e accoglienza dell’altro. È un gesto che riguarda lo sporgersi sul mondo dell’altro con rispetto e con pazienza, con premura, delicatezza. Il gesto di cura è guardare l’altro e permettere all’altro di rivelarsi, esprimersi; volere per lui ciò che in lui è possibilità.
E in questo primo movimento – che detto così appare un gesto molto genuino, che ci piace, ci assomiglia – che cosa si nasconde e annida? Si nasconde il rischio di rendere l’altro dipendente, di pretendersi, come educatori, capaci di leggerlo e così ricondurlo al proprio sguardo. Il gesto di cura ha sempre in sé il rischio di dire quello di cui l’altro ha bisogno o che sente e quindi di ricondurre l’educare a un gesto per sé, per il proprio ego, per la propria soddisfazione, per il desiderio di salvare, deformando l’altro.
Prendersi cura è una prima grande area di significato dell’educare e oggi vuol dire prendere sul serio la questione dell’ascolto, dell’attenzione, della presenza, chiedendosi cosa vuol dire essere presenti con l’altro, per l’altro, cosa vuol dire “stare” nel gesto di cura. E in questo momento “stare”, può significare anche stare dietro a uno schermo, stare a distanza, lasciare spazio. Stare deve voler dire sospendere giudizi, etichette, stereotipi sui ragazzi, evitando la continua insistenza su richieste performative, sul dover-essere. Educare vuol dire avere cura dell’altro che è irriducibile, dell’altro che è altro dalla mia immagine di lui. Riconoscere un bisogno di espressione che si oppone con decisione alla tensione depressiva, oggi così dilagante nelle sue molteplici forme, e acquisire consapevolezza dell’eccedenza di ogni unicità, del suo segreto e mistero.
Secondo significato: educare è portar via, portare altrove. Qual è l’idea di fondo? Quando io educo, quando mi impegno in un’azione educativa permetto al soggetto di vivere un’esperienza dove sperimentare uno scarto con la sua realtà ordinaria, con la sua quotidianità, che è anche la sua zona di comfort, le cose che è abituato a fare, le cose che ripete, quello che gli hanno detto. Il fatto di fare un’esperienza dell’altrove espone al rischio, al possibile, al limite. Questo è quello che per Massa voleva dire avventura – l’avventura quella vera, non quella dei viaggi organizzati. L’avventura è quell’inatteso, quel tempo-spazio che non è sotto controllo, ma che mentre lo vivo svela qualcosa di me, della realtà, degli altri e che dunque mi permette di intensificare i vissuti, di vivere più profondamente il mio desiderio, la mia mancanza, la mia fragilità, dentro uno spazio di esperienza che è altro dall’ordinario e che mi ripara dall’irreversibilità del mondo della vita.
Educare è cura – i gesti si intrecciano – ma questa cura si gioca nell’esperienza, cioè nella materialità e concretezza del vivere: vedete la complessità?
Questa dimensione di un altrove concreto, da pedagogista, è il punto sul quale negli ultimi mesi mi interrogo di più: come recuperiamo la perdita di esperienza di quest’ultimo anno? Cosa vuol dire oggi il gesto del portare altrove? Dopo aver criminalizzato il mondo esterno, esserci appartati nei nostri condomini e villette, aver imposto, noi, l’isolamento agli adolescenti (ben prima del covid), aver demonizzato l’unico altrove (per quanto ambiguo) rimasto, ossia la realtà virtuale, dei videogame, dei social, come possiamo ripensare e offrire esperienze e avventure che aiutino a incontrare un senso possibile per l’esistenza?
Forse ai nostri ragazzi e ragazze stiamo chiedendo troppa adeguatezza, gli stiamo dicendo che devono essere così come li vogliamo, giusti, all’altezza, performanti, riparandoli dalla fatica del “fuori” e contemporaneamente privandoli di spazi di appropriazione e responsabilità. L’esperienza educativa se si risolve nella conformazione e in un percorso univoco e pianeggiante tradisce se stessa e l’altrove diventa un luogo ideologico. Da questo punto di vista, l’avventura ha in sé qualcosa di eversivo ed eccentrico, nel senso che scardina un certo adeguamento, un certo ordine, una certa passività disciplinata. È tempo-spazio di frontiera tra il noto e il prevedibile, e il non-ancora, il possibile. Perché si dia dobbiamo ripensare all’istituzione di esperienze, recuperare una creatività che le nostre paure ci ha da tempo fatto sopire, avere il coraggio di riappropriarci dei luoghi, di ripensare le forme.

Questa sfida, questo secondo gesto dell’educare, interroga profondamente anche l’educazione alla fede: quale esperienza offriamo? Siamo in grado di pensare esperienze che oltrepassino le forme di una religiosità che si esprime con parole e ritualità spesso vuote, recuperando il cuore di una dimensione di significato e incontro con un Senso possibile, con una Parola che invita e convoca? Sappiamo coinvolgere il mondo dei ragazzi senza collusioni con i loro linguaggi, ma partendo da una comprensione delle loro domande, bisogni, ricerche?
Educare è portare altrove per ritornare cambiati. L’educatore sa, in questo movimento, di dover lavorare per il proprio fine, sa di dover lasciare andare. Terzo significato, dunque: l’educare è gesto di insegnamento, di trasmissione, di un lasciar traccia, che non obbliga e non rende schiavi. Questo è un gesto che molti hanno dichiarato finito; ci siamo detti: “Gli adulti non sono più capaci di trasmettere”, perché la velocità delle trasformazioni ha fatto sì che non avessimo più nulla da dire ai giovani rispetto ad una realtà in vorticosa trasformazione, più loro che nostra. Qualcuno in questi ultimi mesi mi ha detto: “Noi adulti abbiam fatto il disastro, gli unici che possono sistemare le cose sono i giovani”. Cosa c’è dentro questa frase apparentemente innocua ed anzi apparentemente colma di fiducia nelle giovani generazioni? C’è l’abdicazione. C’è il dire: “Noi non abbiamo niente da dirvi”. Che senso ha tutto quello che sta accadendo? Non lo sappiamo. E così i giovani non solo hanno la responsabilità del mondo futuro ma gli viene data anche la responsabilità del mondo presente, di un mondo senza-senso. Cosa che poi ovviamente produce, come si vede bene nelle vicende degli adolescenti, una sensazione di vuoto da cui scappare, ritirandosi in microrealtà ordinate e prevedibili (per lo più online), esercitandosi in un controllo esagerato su di sé e le proprie condotte, cercando vie provvisorie di evasione. Non è il nostro tema, ma il disagio degli adolescenti è chiaramente legato a questa dimensione di vuoto e insieme di richiesta e meriterebbe un lungo approfondimento, ma ritornando al nostro terzo significato il gesto di insegnare è il gesto di un adulto che prende sul serio la donazione di senso alla realtà ordinando, per i nuovi venuti, una realtà che loro saranno destinati a cambiare, dove loro potranno essere la novità in relazione a chi li ha preceduti. Questo ha a che fare con l’istruzione, come gesto necessario perché sia possibile l’introduzione in un mondo e in una struttura di senso dove individuarsi.
Il rischio non è solo il vuoto, ma anche il suo opposto ossia la trasmissione che si produce in un atto di assolutizzazione di un senso: inculcare, obbligare, adeguare, manipolare, conformare e cioè tradire il gesto di trasmissione, tradire la verità della donazione di senso dell’adulto facendone un gesto di imposizione. Assumere il compito della trasmissione vuol dire fare molta attenzione, chiedersi bene: “Ma qual è il senso che stiamo offrendo a questi ragazzi? Che cosa vogliamo insegnare?”. Insegnare, come sappiamo, non è un gesto di trasferimento, ma di prossimità, di compagnia, di un fare insieme che responsabilizza senza abbandonare. L’insegnare ha bisogno della testimonianza viva, di passione, convinzione, scelte che si possono svelare solo entro una relazione autorevole.
E allora vedete che i tre significati stanno insieme. Ma questi tre gesti, di fronte alla realtà del nostro tempo – dove la comunità tradizionale si è smembrata – può darsi che un adulto se li prenda in carico e se li gestisca in proprio? È sostenibile che un genitore, un prete, un educatore, un insegnante dica: “Ci penso io” e proponga se stesso come unico volto, come unico spazio, come unica forma dell’educare?
La mia risposta è no. La mia e nostra convinzione è che affrontare la sfida e l’avventura di ripensare il gesto educativo, voglia dire confutare l’immagine di un gesto privato e proporre un’azione che rifugge dall’illusione di poter fare da soli, perché da soli si va a sbattere. Io da padre non posso illudermi di crescere i miei figli da solo se non facendo una professione di onnipotenza che è evidentemente folle. Il mio gesto educativo deve rientrare in qualche maniera in un pensiero che si intreccia con il pensiero di altri come me, in un dialogo che è fondamentale ricostruire nella sua concretezza come fondamento di una rinnovata autorevolezza adulta. Ciò significa pensare i figli, come figli di tutti, per offrire loro una testimonianza condivisa e incarnata; ricostruire alleanze, per evitare la dannosa e dolorosa frammentazione che genera conflitto; non temere la fragilità e non nascondersi vicendevolmente le paure e i fallimenti, per educare i giovani ad attraversare a loro volta con fiducia i passaggi più esposti dell’esistere (la delusione, il fallimento, l’abbandono, il dolore); dare tempo alle domande, perché non servano a confermarci nei nostri arroccamenti, ma ad aprire vie, a recuperare orizzonti e futuro.
Esiste un sentiero – di questo siamo convinti – che di fronte alla complessità tanto del gesto educativo quanto della realtà, deve essere percorso, ed è il sentiero della comunità. Non è un percorso scontato, perché la comunità non è naturale e richiede la fatica, così inattuale ed evangelica, della fraternità. Da qui occorre partire, innanzitutto chiedendosi:
“Noi come siamo comunità? Come pensiamo al nostro essere comunità? Come interpretiamo, insieme, il gesto di educare?”.