«The child is father to the man», (il bambino è il padre dell’uomo) scriveva il poeta William Wordsworth. Il talento individuale è la «causa» della tradizione, affermava Marshall McLuhan, mentre Thomas S. Eliot scriveva: «In my end is my beginning» (nella mia fine è il mio principio). Le parole di questi illustri interpreti della modernità oggi ci possono aiutare a illuminare di nuova luce lo sguardo sul futuro, dopo la fine della fiducia nel progresso, l’ansia della società del rischio, l’angoscia della crisi. E, più in generale, a reinterpretare, in un modo che sia adeguato alle sfide di oggi, il rapporto tra passato, presente e futuro.

Tendiamo infatti a oscillare tra due poli ugualmente sterili: un presente smemorato, del «life is now», del carpe diem, dell’istante intenso, dove per vivere le cose come nuove (l’unico attributo che, pare, le rende dotate di valore) dobbiamo dimenticarci di quello che abbiamo detto e fatto il giorno prima (soprattutto delle promesse, degli impegni, ma anche delle delusioni, e persino delle gioie); e un attaccamento al passato come fosse una sorta di età dell’oro perduta, che ci ostiniamo a voler replicare, che pensiamo di difendere e onorare semplicemente mantenendolo uguale a se stesso, in un conservatorismo anacronistico che in realtà uccide il suo valore e la sua capacità di parlare al presente.

Il futuro non può essere una replica atemporale del presente assoluto, né la difesa di un passato ritenuto immodificabile (atteggiamento che ci appare in tutta la sua evidenza nei fondamentalismi religiosi, ma che ci è molto meno estraneo di quanto ci piacerebbe pensare). Il nuovo per il nuovo, e la difesa a oltranza di ciò che nel passato ha funzionato sono oggi due vie perdenti. Credo invece che per rispondere alla crisi del presente, che sembra rendere incerto e minaccioso il futuro, si possa trovare una “via italiana” che, valorizzando la ricchezza del nostro patrimonio antropologico, apra sguardi inediti su un presente difficile che non può essere affrontato solo con strumenti “tecnici”, ma che ha soprattutto bisogno di senso.

Un patrimonio da cui penso si possano cogliere alcuni spunti – che, non a caso, hanno a che fare con il tema del “generare” e del “legame” – utili per contenere le derive di un malinteso individualismo, che ha contribuito a portarci dove siamo. Il tema del generare ci riporta all’idea della non autosufficienza: esistiamo perché qualcuno ci ha messo al mondo e si è preso cura di noi. L’autosufficienza assoluta (il «self made man») è un “falso ideologico”: se siamo riusciti a combinare qualcosa nella vita, è perché qualcuno ci ha insegnato qualcosa, qualcun altro ha creduto in noi e ci ha dato fiducia, da qualcuno abbiamo potuto trarre ispirazione ed esempio e così via. Nemmeno il genio e l’artista sono immuni dal debito, come scriveva Romano Guardini nell’Opera d’arte.

Solo poi per il fatto di vivere in città dense di storia, arte e bellezza, di avere imparato a distinguere sapori che variano nel giro di pochi chilometri di distanza, di aver ascoltato le sfumature della lingua e ammirato la varietà dei paesaggi, abbiamo ricevuto in dono un capitale culturale enorme. Al quale possiamo essere fedeli solo nella gratitudine e nel desiderio di rigenerare, rinnovandolo, quanto di buono abbiamo ricevuto.

Perché il tempo non è solo lineare. Esiste una dimensione paradossale del tempo, che è quella che consente ai figli di “ri-generare” i loro genitori, nel momento in cui ne raccolgono l’eredità per farla germogliare in nuove direzioni; o che permette al singolo talentuoso, collocandosi in una tradizione, di ridarle nuova vita facendone sviluppare aspetti inespressi; o che ripete il miracolo della morte-rinascita nel momento in cui ciò che sembrava spegnersi rivela, per chi la sa vedere e accompagnare, una vitalità inaspettata.

La vita artistica, imprenditoriale, sociale del nostro Paese è ricca di esempi di questo tipo, che scardinano la sequenzialità, l’irreversibilità dei processi, la tirannia del tempo per valorizzare la reciprocità, il potenziale propulsivo della gratitudine, la trasformazione delle fini in nuovi inizi. Solo con la fantasia e il desiderio di far rinascere la tradizione che abbiamo ricevuto, e l’umiltà e l’impegno che scaturiscono dalla gratitudine per quanto altri hanno fatto per noi, magari senza poterne godere a loro volta, potremmo dar vita a un futuro, da consegnare ai nostri figli, che non sia segnato semplicemente dalla rinuncia, dalla decrescita, dalla frustrazione, ma dall’eccedenza della vita, che sa innovare perché creativamente fedele a ciò che l’ha generata.

Chiara Giaccardi