Sarà la pandemia o forse una qualche combinazione astrale. Certo è che questo 2021 sta consegnando un’idea diversa — e possibile — dell’Italia. Niente più di una metafora, certo. Ma che, se collettivamente riconosciuta, potrebbe aiutarci ad aprire una stagione nuova. L’accostamento è audace e puramente metaforico: tra il governo Draghi e la Nazionale di Mancini si notano alcune ricorrenze interessanti. Sono infatti almeno tre gli elementi che ritornano in queste due compagini così diverse.
Il primo riguarda la leadership. Tema ossessivamente evocato, dove il leader è di solito visto come un deus ex machina, soluzione magica per sciogliere il groviglio in cui rischia di tradursi la complessità del nostro mondo. In effetti, Draghi e Mancini sono due leader. Ma lo sono prima di tutto perché autorevoli. La posizione che occupano non nasce dal nulla, bensì è un portato di biografie che hanno generato stima nazionale e internazionale. Nella loro posizione non devono dimostrare nulla, ma provano a mettere a servizio del Paese quello che sono. Grazie a questo accreditamento, l’orizzonte del loro lavoro non è tutto schiacciato sul presente, misurato dall’ultimo sondaggio o dall’umore dei tifosi. Certo, come tutti, anche loro sono vincolati ai risultati. Ma con un margine di libertà in più. Entrambi sono leader misurati, senza smanie di protagonismo, senza eccessi decisionisti. Sanno di avere potere, ma non ne abusano. Piuttosto, impiegano la loro autorità per smussare i conflitti interni, per tenere saldo nelle loro mani il timone del gruppo, per creare uno spazio di sicurezza dove ciascuno può provare a dare il meglio di sé.
Il secondo aspetto riguarda la competenza diffusa. In questi giorni, della Nazionale italiana si dice che gioca bene anche se non ci sono campioni. Ma la realtà è un po’ diversa. È vero infatti che non spicca un fuoriclasse, ma forse è perché ci sono 26 talenti. La scelta di Mancini è stata coraggiosa quanto moderna: costruire un gruppo coeso che condivide lo stesso gioco, con una rosa ampia per potere affrontare le diverse situazioni in modo tale che tutti possano dare il loro contributo. I giocatori non sono intercambiabili. Ciascuno ha le proprie attitudini. Ma la diversità, lungi da causare distonia, converge dentro un tipo di gioco condiviso, di cui l’allenatore — col suo staff — è garante. Una logica che ritroviamo anche nel governo dove i ministri — scelti per quello che sanno fare — portano la loro competenza nei vari ambiti di applicazione. In questo modo la competenza non diventa specialismo, ma necessaria attenzione al dettaglio, dentro una cornice comune. Oltre alla cornice, a contare è la concreta capacità di realizzazione.
E così se arriva alla terza dimensione: lo spirito di squadra. I ministri del governo Draghi parlano poco, nessuno è prigioniero della smania di protagonismo. Non si registrano stonature su questo. Anche perché Draghi è stato esplicito fin dall’inizio, chiedendo sobrietà nella comunicazione. Così che abbiamo il miracolo di un governo compatto benché costituito da forze politiche tanto diverse. La ragione è chiara: tutti sanno che la loro partecipazione al governo — il loro successo o insuccesso — è largamente legata alla figura del premier. Che alla fine decide rispetto agli obiettivi che sono stati dichiarati e condivisi. Allo stesso modo, nella squadra di Mancini una delle cose che ha colpito di più è stato lo spirito di squadra. Al punto da far accadere cose piuttosto rare nel calcio. Come l’amicizia tra Belotti e Immobile o gli abbracci di tutta la panchina quando l’Italia segna un gol. A contare di più è l’obiettivo che insieme si sta cercando di perseguire. Perché è il senso ciò che tiene insieme un gruppo, che permette di trascendere i conflitti e cercare quel difficile equilibrio tra le aspirazioni individuali e gli obiettivi comuni. Senso che per il governo ha a che fare con la sfida del Pnrr e il rilancio dell’economia e della società dopo la pandemia; e per la Nazionale con un risultato importante a questi europei. Col desiderio — che vale per entrambi — di restituire una immagine positiva dell’Italia, dentro e fuori i confini nazionali.
Non si tratta di fare una teoria di queste due vicende così diverse tra loro. E tuttavia, credo che questa convergenza non sia casuale e che ci dica qualcosa sullo spirito del tempo. Il mondo in cui viviamo è sempre più complesso. La competizione è sempre più spinta. In questa situazione, nessuno ce la può fare da solo. Servono visione, competenza, spirito di squadra. L’elemento personale rimane fondamentale. Ma va posto nella cornice di alleanze che si formano in vista di obiettivi condivisi. Il tempo in cui semplicemente tutto cresceva ed era sufficiente cogliere qualcuna delle opportunità che il sistema autogenerava è finito. Ma per mettersi insieme occorrono autorità non appiattite sulla gestione del potere e proprio per questo capaci di aprire la porta del futuro, valorizzando le tante capacità presenti e fungendo da antidoto alla ricorrente tentazione della mera autoaffermazione. Origine di tanta microconflittualità. Combinazione possibile solo in rapporto a obiettivi non solo strumentali e perciò capaci di motivare a superare i propri limiti e gli interessi particolari. Sarà la pandemia o forse una qualche combinazione astrale. O forse è il tempo che sta provando a indicarci una direzione nuova.