Donne, giovani, Sud: non bastano solo i soldi

di Mauro Magatti
17 Maggio 2021

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Tra il 1999 e il 2019 il Pil italiano è cresciuto del 7,9%. In Germania l’aumento è stato del 30,2%, in Spagna addirittura del 43,6%. Sono i dati che aprono il Pnrr che, nello sviluppo delle proprie linee progettuali, indica come principali beneficiari le donne, i giovani e il Mezzogiorno. La filosofia del Piano è così ben delineata: le risorse vanno investite mettendo al centro chi fino a oggi è rimasto ai margini. È vero, nel Piano si parla anche di importanti riforme di sistema. Ma ciò che più colpisce è la quantità delle risorse finanziarie da investire. Come ha dichiarato Draghi si tratta di un’occasione storica, per cogliere la quale i soldi, da soli, non basteranno. Donne, giovani, Sud sono tre punti deboli del nostro Paese attorno ai quali si strutturano non solo comportamenti economici, ma anche modi di fare, pratiche, rapporti sociali molto radicati nella nostra società. Difficili da estirpare.

Se si vogliono raggiungere i risultati attesi, accanto all’investimento economico (un fatto straordinario che dà concretezza all’ambizione dichiarata) occorre agire anche sul piano delle consapevolezze culturali. Senza le quali rischiamo di ritrovarci, tra qualche anno, al punto di partenza.

La questione femminile non esiste solo in Italia. Anche in altri Paesi avanzati persistono importanti differenziali di genere in termini di reddito e carriera. Ma da noi la questione assume caratteri ben più gravi: il tasso di attività della popolazione femminile (53,8%) continua a essere nettamente più basso della media europea (67,3%). Anche tra le giovani generazioni. Al fondo c’è il nodo irrisolto del rapporto tra vita familiare e professionale: lato imprese, perché l’investimento sulle giovani donne rimane una rarità, dato che per molti datori di lavoro una gravidanza è solo un costo, un fattore che deprime l’efficienza aziendale; lato famiglia, perché troppo spesso una giovane madre si ritrova da sola (con uno scarso aiuto da parte del partner) e senza servizi (speriamo arrivino presto gli asili nido) a gestire una condizione di grande complessità. Il ricorso ai nonni non sempre è possibile e non di rado innesca sensi di colpa che spingono le donne a rinunciare al lavoro. Difficoltà che aumentano tenuto conto che in Italia è ancora poco diffuso il part time, che in altri Paesi consente alle giovani coppie di gestire in modo flessibile l’armonizzazione tra vita lavorativa e vita familiare. Cambiare i numeri dell’occupazione femminile — anche tenendo conto che tra i giovani quella femminile è la popolazione più istruita — significa rinegoziare modi di vita e pregiudizi culturali che ruotano attorno al nodo produzione-generazione.

Il blocco generazionale creatosi in Italia è impressionante. Anche se sul mercato del lavoro arrivano oggi coorti meno numerose, abbiamo il triste primato europeo per quanto riguarda il tasso di ragazzi sotto i 19 anni che non lavorano e non studiano (oltre due milioni). Senza dimenticare che, fino a prima del Covid, si è registrata una costante emorragia di cervelli. In questo quadro, le ricerche dicono che i giovani italiani avrebbero desiderio di farsi una famiglia ma non si avventurano per questa strada perché non ci sono le condizioni né lavorative né abitative. Una serie di fattori convergono nel bloccare il processo di sviluppo personale. Anche qui gli investimenti saranno provvidenziali. Ma attenzione: da un lato, molti ragazzi (specie i più fragili) rimangono prigionieri di un’idea puramente strumentale del lavoro: quello che conta è accedere al consumo (tirando avanti con un lavoretto, rimanendo a casa a carico dei genitori o ottenendo un qualche sostegno pubblico); dall’altro, nelle fabbriche, nella pubblica amministrazione, negli uffici, nelle professioni continua a essere diffusa l’idea di considerare i 30/40enni «giovani di buone speranze». Una scusa per imprigionarli in una precarietà infinita e mortificante. I giovani hanno prima di tutto bisogno di essere riconosciuti per il loro valore. Di essere messi alla prova. Di essere aiutati a ritrovare un’etica del lavoro, della vocazione, dell’impegno.

Infine il Sud. In questi giorni molte voci hanno salutato con entusiasmo questa indicazione preferenziale. Perché è vero che la questione meridionale è la questione italiana. Ma la sfida è evitare che si riproducano quei meccanismi che da decenni bloccano lo sviluppo di tanta parte del Sud. Dove ancora oggi troppo spesso le energie imprenditive e creative vengono stoppate da quei gruppi che, mediando l’accesso alle risorse (per lo più pubbliche), puntano solo al mantenimento degli equilibri di potere esistenti. Vincolando tali risorse a qualche codice di fedeltà (anche quando non c’entra la mafia). Ora il rischio è che, con un nuovo flusso di denaro pubblico, questo modello si perpetui impedendo ancora una volta la liberazione di quello spirito di iniziativa senza il quale non ci può essere dinamismo economico. La realizzazione di quelle infrastrutture di cui il Sud è drammaticamente carente può fare la differenza. Ma tutto ciò servirà a poco se, in parallelo, non si smantellerà la ragnatela di dipendenze ancora così forte in molte aree meridionali. Come scrivono i due studiosi americani Acemoglu e Robinson, sta nel superamento di queste forme di intermediazione e controllo il segreto per l’attivazione del processo di sviluppo.