1. Grazie ai risultati straordinari ottenuti attraverso lo sviluppo industriale, la condizione di vita di miliardi di essere umani è radicalmente cambiata negli ultimi due secoli. Più benessere e più libertà sono conquiste che nell’ultima parte del XX secolo hanno cominciato a diffondersi in tutto il mondo.

Tuttavia, come ogni impresa umana, anche questa grande realizzazione deve fare i conti con le sue contraddizioni. Al punto che, all’inizio del XXI secolo, il “paradigma della produzione” si ritrova a misurarsi con tre grandi questioni che sono, peraltro, il portato del suo stesso successo.

La prima ha a che fare con gli effetti sulla biosfera e il cambiamento climatico. Nei prossimi decenni l’imperativo della sostenibilità è destinato a incidere profondamente sul nostro modo di vita.

La seconda riguarda le tensioni sociali e politiche derivanti da un modello di crescita che pare non preoccuparsi della disgregazione dei legami sociali e dell’integrità psichica individuale che esso produce. Ma, come è evidente nella lunga crisi iniziata col 2008, senza società e senza persone alla fine non c’è più nemmeno l’economia.

La terza questione riguarda il dominio della logica dei sistemi sulla vita concreta delle persone. Produrre di più e meglio significa organizzare sistemi sempre più complessi, pervasivi e veloci che finiscono per schiacciare le esistenze concrete, creando scarti umani. Se tutto deve essere tenuto sotto controllo, nulla può sfuggire al nostro dominio. A cominciare dall’essere umano, con la sua creatività, i suoi limiti, la sua fragilità. La vita stessa diventa oggetto di dominio. Per questa via, la libertà rischia di essere assorbita dal sistema tecnico in una deriva di crescente disumanizzazione.

Se vogliamo essere realisti, proprio perché riconosciamo gli straordinari successi ottenuti fin qui, non dobbiamo avere paura di guadare in faccia i problemi che la nostra epoca ci consegna.

Ce la faremo?

2. La filosofa ebrea Hannah Arendt sostiene che la vita sociale trae la sua linfa dal fatto che ciascuno di noi entra nel mondo attraverso il momento costitutivo della nascita.Da questa comune origine è possibile riconoscere l’unicità individuale, da cui deriva 

la dignità assoluta di ogni persona e la sua capacità di dare inizio a qualcosa di inedito. 

Che è poi la libertà nel suo senso più pieno.

La nascita, inoltre, è ciò che lega le generazioni, garantendo la continuità della specie, ma anche fondando il legame sociale.

Il vero presupposto di una libertà che non è solo creativa ma anche in grado di stabilire relazioni e sostenere la socialità sta proprio in questa irriducibile imperscrutabilità del nascere alla vita A differenza della produzione, la generazione, pur senza rinunciare agli strumenti della ragione e della prudenza, è tale proprio perché è una apertura destinata a sfuggirci, a superarci.

Un processo che possiamo solo favorire e accompagnare, mai dominare. 

Accettando così quella costituiva fragilità della libertà la cui negazione sta all’origine dei problemi che caratterizzano la modernità avanzata.

Seguendo questa intuizione, si arriva a capire che l’atto più grande che come esseri umani possiamo compiere non è tanto quel del produrre – che certo è assai rispettabile – ma quello del generare. Dove questo termine ha un significato non solo biologico.

È la generazione di altri e della altrui libertà che realizza pienamente la nostra vita. 

Il dono più grande che possiamo scambiarci è proprio la libertà.

3. Così noi – che siamo la prima generazione che ha ricevuto la fortuna di essere stati liberati e di vivere in libertà (i nostri antenati hanno sognato di poter vivere come viviamo noi!) – oggi abbiamo la possibilità – e dunque la responsabilità – di non limitarci a pensare che la libertà consista semplicemente nell’avere a disposizione un numero crescente  e tendenzialmente infinito di possibilità per soddisfare il desiderio individuale reso benzina del motore capitalistico.

È piuttosto nella possibilità di mettere al mondo altro e altri che la nostra libertà si compie. 

Nel primo caso, ci chiudiamo nella logica della produzione (che poi ci costringe a diventare anche consumatori, per tenere alimentari il circolo).

Nel secondo caso, invece, entriamo nel paradigma della generazione.

Ma, ci si chiederà, è possibile rompere l’egemonia della produzione e aprirsi alla generazione? Non si tratta di un  discorso utopico, dato il punto in cui siamo?

L’obiezione va presa sul serio. Andare controcorrente significa sempre scontrarsi con la realtà e essere disposti di sobbarcarsi la fatica di attraversare un deserto.

Ci sono però almeno tre forze che spingono verso l’apertura di una fase nuova e la incoraggiano.

In primo luogo, le questioni sopra ricordate, che ci piaccia o no, esigono una riposta nuova e urgente.

In secondo luogo, il maturare di nuove sensibilità culturali che, per quanto ancora minoritarie, diventano ogni giorno più forti.

Infine, la constatazione che senza generazione delle persone e delle comunità è la stessa produzione a venire messa a rischio. 

I segni dei tempi suggeriscono dunque che è il momento di andare al di là dei limiti ormai angusti del paradigma produzione/consumo, per abbracciare la logica infinitamente più ricca della generazione.

Ovviamente c’è ancora moltissimo da fare.

Passare dal paradigma della produzione a quello della generazione comporta infatti un salto logico, dalle conseguenze molto concrete: nuovi modelli organizzativi, nuove priorità politiche, nuovi stili di vita, nuove dinamiche di convivialità.

Mettere al centro la generazione come vera leva per il nostro futuro insieme non è una questione solo individuale, ma comporta la ricerca di nuove forme sociali più capaci di ospitare l’unicità di ciascuno. Chiamato poi a portare, responsabilmente, creativamente, come via relazionale di realizzazione di sé, il proprio contributo alla creazione di valore condiviso.

La generatività sociale è un modo per camminare in questa direzione.