Comunità è una parola misteriosa, ambigua, complessa ma anche molto affascinante, intrigante, rassicurante. Proverò a sollecitare alcune riflessioni proprio a partire da questa lettura e tesi che condivido.
C’è una forte riemersione nel dibattito pubblico contemporaneo della parola comunità, un bisogno sempre più urgente di riconsiderarla. È possibile notarlo in diversi ambiti, a partire da Facebook e dai Social Media User Generated che hanno preso la parola comunità e l’hanno messa al centro nel rapporto con il proprio cliente-utente, manche nel dibattito economico attorno ai beni comuni o ai beni relazionali, sul quale c’è un grande fermento di riflessioni e pratiche (come dimostra il Premio Nobel per l’Economia del2019). Il tema della comunità negli ultimi annasi è rivelato molto forte anche in alcune riflessioni filosofico-politiche. La parola “Nuovo Umanesimo” è stata usata – più o meno consapevolmente – proprio per cercare di contrapporre a un mondo tecnologico e un’avanzata post-umana, le relazioni umane e il ruolo che l’uomo può svolgere nel mettersi alla guida della tecnologia senza rimanerne succube.
La comunità è poi espressione di molte pratiche dal basso, di organizzazioni che nascono tra cittadini: le Social Street sono una di queste esperienze diffuse anche in Italia, ad esempio, e nascono proprio dalla volontà di alcuni soggetti di mettersi insieme all’interno di una via e iniziare a scambiarsi informazioni, relazioni, progetti e ad aiutarsi. È chiaro, dunque, che queste riflessioni tengono conto dei luoghi, come gli Oratori, come le Case Salesiane, come in generale le Parrocchie, in cui la parola è da sempre utilizzata e da sempre tenuta viva.
Perché questa parola sta emergendo sempre di più nel dibattito pubblico?
Perché sostanzialmente è una risposta, umana, naturale e comprensibile al fatto che nell’Ultimo secolo tutto si è accelerato, frammentato, complessificato ed espanso. L’accelerazione del tempo è legata alla spinta che il capitalismo ha dato allo sviluppo tecnologico per cercare di perseguire quello che da sempre lo muove: la produzione di ricchezza.
La frammentazione dell’esistenza deriva dal fatto che le grandi narrazioni del ‘900, in cui le persone si riconoscevano all’interno di una serie di categorie collettive – i lavoratori, gli impiegati ecc. – sono andate mano a mano frammentandosi. Oggi noi siamo ciò che facciamo, ciò che vediamo, le frequentazioni che abbiamo on line e off line, i consumi e le cose che compriamo, gli spettacoli o prodotti culturali che consumiamo. La nostra esistenza stata letteralmente frammentata e spesso questo – la convivenza con le molte sollecitazioni e anime – porta anche a delle difficoltà dentro di noi.
Infine, l’espansione dello spazio. Prima la globalizzazione ha aperto il mondo (con la possibilità di volare lowcost) e poi l’arrivo del digitale ha creato un mondo “fisico” parallelo a quello che invece viviamo nella realtà analogica.
Tutti questi fenomeni hanno impattato su di noi, soprattutto per una questione di scollamento tra la capacità dell’uomo di evolvere biologicamente e la tecnologia che invece accelera esponenzialmente. Tutto questo non può non creare dei disagi e delle difficoltà, in alcuni casi dei veri e propri “mostri”, come quelli rappresentati nel bellissimo trittico di Francis Bacon.
Spesso sono difficoltà con cui tutti noi conviviamo e penso sia importante iniziare adirsi che oggi siamo tutti un po’ fragili, un po’precari, un po’ isolati, abbiamo tutti un po’ di ansie e proviamo tutti un po’ di rabbia in alcune circostanze. Se da un lato si assiste quindi a un fenomeno di isolamento e allontanamento delle persone, dall’altro può iniziare invece un interessantissimo percorso attraverso il quale trovare una risposta a questo disagio. A partire dal riconoscimento che non è più possibile parlare di “fragili” e “non fragili “ma piuttosto dell’esistenza di diverse fragilità e smettendo di rapportarsi uno a uno ma considerandoci tutti insieme, aiutandoci comunitariamente, questa risposta può avvenire.
Al di là delle patologie che necessitano di creda parte di specialisti – perché la rabbia, la precarietà, l’ansia e l’isolamento possono sviluppare anche patologie per cui ci vogliono competenze specifiche – se rimaniamo in una dimensione più di percezione di vissuto quotidiano, noi pensiamo che il tema principale sia la solitudine o “privazione relazionale”. Il vero problema che affrontato aiuterebbe a risolvere molto del brusio e delle fatiche quotidiane e consentirebbe di dedicare le giuste energie e il giusto tempo alle reali patologie e difficoltà, è proprio la solitudine. E questa solitudine richiama, in alcuni casi, una prospettiva di ricordo “dei bei tempi andati”, un racconto di quel mondo ideale antico in cui c’era una comunità, il paese, il villaggio in cui si viveva tutti insieme, le porte delle case rimanevano aperte, ci si conosceva tutti e ci si salutava per strada. Questo è stato un modo di vivere della maggior parte della popolazione mondiale per secoli, se non millenni.
Dall’altra parte c’è invece una nuova dimensione che non è solo un ricordo dei bei tempi andati ma è invece una reale voglia di ricostruire e rilanciare la dimensione comunitaria, dimensione che è stata evidenziata in maniera chiarissima dal Covid.
La pandemia ha esacerbato e fatto esplodere delle difficoltà sia negli anziani che negli adolescenti e nei giovani, che sono i soggetti che più hanno sofferto e stanno soffrendo dell’isolamento sociale, ma ha anche fatto venir fuori una straordinaria voglia, ricchezza e capacità di rispondere all’emergenza e alla tragedia con un grandissimo fiorire diesperienze di solidarietà, condivisione scambio intergenerazionali. È stato un grande movimento in cui tanti di noi si sono messi insieme e hanno cercato di capire come potevano aiutare gli altri, anche solo con una telefonata, un sorriso o un pacco consegnato.
Per rimettere al centro la comunità, quindi, non dobbiamo scivolare in queste dinamiche della memoria, ma cercare di recuperare ciò che c’era di buono nella dimensione comunitaria e diffonderla, praticarla, raccontarla e discuterla, soprattutto. Non solo un tema di “azione” ma anche di “racconto”. È necessario non solo comunicare con il fuori ma anche ridiscutere e dare un proprio significato a questa parola affinché venga vissuta concretamente.
Comunità è una “parola trappola” molto complicata, spesso usata come sinonimo di altro, ad esempio di “società”. In realtà, se ci addentrassimo nello studio dell’evoluzione del modo in cui gli uomini stanno insieme, ci accorgiamo che la comunità è qualcosa che esiste “prima della società” e “dopo la famiglia”.
Questa riflessione la prendo dal libro “Comunità” di Marco Aime, antropologo insegnante all’università di Genova, che riportai 5 elementi che storicamente, antropologicamente e sociologicamente riscontriamo nelle comunità:
Prima di tutto una comunità nasce con una dimensione spirituale, rappresentata da un SIMBOLO che, a prescindere dalla civiltà e dal tempo, riunisce le persone che ne fanno parte.
La comunità ha sempre un CONFINE.
La prima immagine che viene in mente è infilo spinato, il muro. Invece il confine semplicemente una linea che crea un “di qua” e un “di là”, una separazione quindi che si può anche varcare. Il confine della comunità è quindi una linea, è un varco aperto poroso da cui io posso uscire, per andare a scoprire cosa c’è al di fuori della mia comunità e nel mondo, e in cui altri possono entrare. Alla comunità serve un confine perché possa riconoscere e dire: “Noi siamo questi e gli altri sono fuori”. Il tema è preservare la dimensione di identità, di stile, di uguaglianza, di modalità con cui agisce, senza però chiudersi, creare dei muri e quindi da Communitas, diventare Immunitas. Il concetto dell’Immunitas è ben comprensibile se pensiamo al nostro corpo: i nostri anticorpi sono funzionali a rispondere a un attacco all’esterno, quando qualcosa entra nel nostro organismo si scatena una reazione immunitaria, dei meccanismi biologici che permettono al corpo di difendersi. A volte accade che questo meccanismo vada fuori giri, perda il proprio controllo e inizi a rispondere anche quando non c’è nessuna aggressione: difendendosi contro qualsiasi cosa inizia a uccidere anche se stesso. Le malattie immunitarie quindi portano anche alla morte della persona stessa per eccesso di autodifesa. La trovo una bellissima similitudine con un rischio che corrono quelle comunità che si rifiutano di aprirsi a chi la pensa diversamente e portando all’estinzione del gruppo e alla morte della comunità stessa. Riassumendo: la comunità ha un confine che resta sempre aperto ma che consente di dire: “Io sono dentro, tu sei fuori” e poi ci confrontiamo, parliamo, ne discutiamo. Vuoi entrare? Ci sono delle regole. Vuoi uscirne? Perderò qualcosa ma otterrò della libertà.
C’è poi un tema di MEMORIA, la comunità sì alimenta e si costruisce attraverso il racconto di chi c’era a chi verrà. È un tramandare, ma una tradizione è anche “tradimento” (la radice latina è unica infatti, deriva dal verbo latino Tradĕre, che vuol dire “attraversare” ma anche “portare da una parte all’altra”). La memoria passa ma questo passare non è congelare, conservare; qui c’è tutto il tema dell’intergenerazionalità: le persone più anziane raccontano e passano la loro esperienza e il loro punto di vista ma contemporaneamente devono accettare che i giovani, oltre a prendere e riconoscere questa memoria, allo stesso tempo la facciano loro attraverso una loro interpretazione. La comunità quindi non è qualcosa che esiste e rimane sempre uguale a se stessa, ma che viene riletta eri discussa con il passare delle generazioni.
La comunità vive di RITI, di momenti in cui ritrovarsi regolarmente per guardarsi negli occhi e dirsi l’un l’altro: “Siamo insieme, ci siamo e se serve ci aiutiamo”.
L’elemento più importante che vi può far capire quanto sia importante lo spirito di comunità all’interno della vostra Casa, Oratorio o altri luoghi in cui vivete, è l’esistenza di LEGAMI FIDUCIARI, di gratuità. Qui ci viene in aiuto il ricordo della vita tradizionale nei villaggi. Quando era tempo di mietere il grano se qualcuno si faceva male e non poteva recarsi nel proprio campo a svolgere il lavoro, la comunità andava al posto suo. Questo non veniva fatto perché ci fosse una regola scritta o perché qualcuno si aspettasse poi una percentuale; era così perché ognuna delle persone che viveva all’interno della comunità sapeva che se un domani fosse successo a lui, gli altri avrebbero fatto lo stesso. Il tema è proprio quello del dono, del legame, della fiducia. La comunità si distingue dalla “Community of Interest” o“Community of Practice” perché l’appartenenza a quest’ultima è legata all’interesse o tema per cui è nata, ma tendenzialmente non c’è un legame di condivisione, fiducia, gratuità che vada oltre l’interesse stesso. E’ importante quindi separare i due mondi: ciascuno di noi può partecipare e condividere momenti con le proprie Community, ma la vera questione è se siamo invece parte di una comunità che si aiuta e si sostiene gratuitamente.
La comunità, all’interno del percorso di crescita di ognuno di noi, si posiziona tra la famiglia e la società ed è il luogo in cui si sperimenta la fiducia (il cui etimo è lo stesso di “Fede”) tra coetanei e tra adulti e ragazzi, al di là del legame di sangue o del ruolo sociale di ciascuno. È quindi un momento nel percorso di crescita delle persone in cui sperimenta il legame di fiducia, di scambio e di solidarietà aldi fuori della dimensione sociale.
Se questa esperienza comunitaria non è forte e non è vissuta, è molto difficile, dal nostro punto di vista, avere una società sana perché non riusciremo mai a trovare qualcosa che ci leghi a un altro italiano che magari vive a 150 km di distanza, parla un’altra lingua, fa un altro lavoro, ha altri interessi. Perché dovremmo sentirci uniti all’interno di un’uguale visione o società? Se non riconosciamo “simile a noi” le persone che si trovano nel mio stesso contesto o Oratorio, perché dovrei preoccuparmi allora dei cittadini?
È necessario e urgente, quindi, recuperare spazi di comunità là dove la comunità è viva e cercare di portare questo tema e queste esperienze comunitarie anche in altri contesti che hanno perso questa dimensione. La comunità non è una forma organizzativa né viene determinata da un luogo fisico, ma è una forma dello spirito. Ecco perchè le Comunità Salesiane e Oratoriane italiane, hanno tanto da dire e da raccontare non solo al proprio interno ma anche all’esterno. Quell’esperienza è, secondo noi, qualcosa di cui c’è fortemente bisogno, ora più che mai.
Francis Bacon, “Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion”, 1944, Colore a olio e pastello, 74 cm x 94 cm