Qualche settimana fa un gruppo di ricercatori dell’università di Stanford ha provato ad analizzare le cause di un fenomeno che sembra essere sempre più diffuso in questi mesi[1]. È stato definito “zoom fatigue” e può essere inteso come la fatica connessa ad un utilizzo crescente di piattaforme per la videocomunicazione, come appunto Zoom ma anche come Meet, Teams, Skype e via dicendo, fino ad arrivare a piattaforme meno note ma molto utilizzate soprattutto per la didattica a distanza nelle scuole o nelle università. Nel loro studio i ricercatori hanno identificato diversi fattori che, a lungo andare, renderebbero questa particolare modalità di comunicazione incredibilmente stancante: dalla necessità di concentrarsi simultaneamente su una pluralità di stimoli visivi al fatto di monitorare continuamente sé stessi attraverso la propria webcam; dalla prolungata mobilità ridotta in uno stesso ambiente al carico cognitivo necessario per interpretare il flusso comunicativo durante l’intero meeting.

Il fenomeno della “zoom fatigue”, al di là della sua specificità, offre uno spunto di riflessione molto interessante. È, infatti, abbastanza intuitivo immaginare come possa essere parte di una questione molto più ampia e complessa che in relazione allo scoppio della pandemia sta assumendo forse una configurazione nuova: la questione del corpo e della sua sofferenza di fronte ad una continua richiesta di funzionamento. Parlare di “corpo” piuttosto che di “individuo”, di “persona” oppure di “soggetto” è certamente riduttivo, non si può negarlo. Eppure, allo stesso tempo, in alcuni casi, anche solo limitarsi ad una lettura epidermica di alcuni fenomeni può essere utile, poiché il prezzo della superficialità è ripagato dalla concretezza con cui si stagliano alcune tensioni che altrimenti rischierebbero di collocarsi ad un eccessivo livello di astrazione.

Per affrontare la questione del rapporto tra corpo e sofferenza una premessa è fondamentale. Da sempre il corpo umano si presenta come “scritto” da una molteplicità di leggi, più o meno istituzionalizzate, più o meno formalizzate, che si sono date l’obiettivo di metterlo in forma e da sempre queste leggi hanno provocato grande sofferenza proprio nel loro scriversi nella carne del corpo. Pensiamo alla legge politica, quella del diritto statale, che con i suoi codici e i suoi regolamenti disciplina e punisce le forme di devianza, arrivando a imprigionare o, in casi estremi, addirittura a torturare e a mettere a morte i corpi dei propri cittadini. Oppure, pensiamo alla legge medica che, a partire da un corpus di tecniche e di saperi, interviene sulle patologie dei corpi malati con farmaci, protesi e macchinari al fine di guarirli, aggiustarli o, sempre più spesso, potenziarli. Detto altrimenti: la storia dell’essere umano è la storia di un infinito corpo a corpo tra leggi e carne.

In questo senso, c’è una legge che in questi ultimi mesi è emersa con particolare forza in risposta alla crisi globale innescata dalla pandemia: una legge che potremmo definire “funzionale”. Una legge che non può essere ricondotta all’alveo di una singola istituzione, sia essa quella dello Stato, quella del mercato, oppure quella della scienza e della tecnica, ma che si pone come ad esse trasversale. Una legge che si è data l’obiettivo di mantenerci attivi e produttivi, nel lavoro come nel consumo, nella vita privata come in quella pubblica. Si tratta della legge per cui, “nonostante tutto”, è necessario continuare a funzionare.

Niente di nuovo, certamente. Anche solo per citare due autori del dibattito più recente, questa legge può essere ricondotta a quell’imperativo a “funzionare” di cui ha parlato Miguel Benasayag[2], così come a quella “società del rendimento” analizzata da Byung-chul Han in lavori successivi[3]. Ecco allora il senso delle tante ore trascorse su Zoom e sulle tante altre piattaforme di videocomunicazione al fine di non inceppare le macchine produttive della scuola, del lavoro o della socialità. Ecco, però, anche l’accresciuta rilevanza delle piattaforme per gli acquisti online, per le prenotazioni online oppure per l’incontro online. Più in generale, ecco allora la centralità di tutti quei dispositivi – il più delle volte digitali – che, “nonostante tutto”, ci consentono ancora di fare, di essere attivi e pienamente produttivi.

In mezzo a tutto ciò, tuttavia, si trova proprio il corpo. Un corpo che di fronte allo scriversi di questa legge è chiamato a soffrire e a mettersi in forma. Sempre più voci in questi ultimi mesi hanno raccontato l’esplodere della stanchezza, dello stress, dell’ansia e della depressione, soprattutto tra i lavoratori in smart working e tra gli studenti in didattica a distanza[4]. Siamo di fronte alla zona d’ombra della pandemia, il retroscena in cui piombano i corpi dopo che le lezioni oppure le riunioni online sono terminate. Un po’ indolenziti e frastornati, si guardano attorno nella stanza e cercano di mettere a fuoco ciò che li circonda. Serve un lasso di tempo più o meno lungo per colmare la distanza tra qui e là, tra il luogo in cui si trova il corpo e le parole e le immagini che l’hanno inondato provenienti da altrove. Sia chiaro, nulla a che vedere con il supplizio dei corpi segnati dal dolore della malattia oppure sottoposti al funzionamento delle macchine per la respirazione assistita. Di questa sofferenza, tuttavia, forse è bene che ne scrivano solo coloro che ne hanno fatto esperienza diretta. Per una questione di rispetto, per una questione di pudore.

Che fare, però, di fronte a questa sofferenza del corpo così nascosta e quotidiana? Forse, l’unica possibilità che nell’immediato ci è data proviene da un’altra legge, quella che potremmo chiamare “legge della parola”. In modo molto semplice, si tratta di raccontare, di dare voce e, appunto, di dare parola a questa sofferenza del corpo costretto a funzionare, per far sì che quanto vissuto non resti un’esperienza individualizzata ma che possa diventare occasione di rigenerazione. Solo la parola può qualcosa di fronte al corpo che soffre, altro non c’è e, molte volte, neanche questo basta.

Come ha magistralmente insegnato Michel de Certeau[5], infatti, due indicazioni sono preziose quando si tratta di far sì che il corpo – e il corpo sofferente, in particolare – si confronti con la parola. Innanzitutto, è necessario accettare di dover “danzare”, ovvero accettare che il racconto della sofferenza non sia un mero resoconto oggettivo, bensì che si lasci andare ad un movimento in parte incontrollabile che, proprio dal corpo stanco, ferito e sofferente, trae origine e senso. Non è possibile semplicemente “parlarne”, come se si parlasse del meteo oppure di un capo d’abbigliamento; è necessario accettare che la carne riecheggi nella parola, che quel “modo di parlare” sia anche già allo stesso tempo un modo per proseguire altrimenti quell’esperienza.

Inoltre – ed è la seconda indicazione – nella danza tra corpo e parola è necessario accettare che non tutto possa dirsi, che qualcosa sfugga. Non è semplicemente l’impossibilità di dire con chiarezza; quanto, ancora più radicalmente, l’impossibilità che tutto possa dirsi. Di fronte al corpo sofferente, la legge della parola deve accettare lo scacco dell’indicibile, deve accettare lo scacco delle lacrime, del grido oppure del silenzio. Ogni volta, infatti, qualcosa continua a resistere alle parole, stagliando così il bordo di un intero continente che si spalanca dentro di noi.

[1] Per una sintesi dello studio: https://news.stanford.edu/2021/02/23/four-causes-zoom-fatigue-solutions/ .

[2] Benasayag, M., Funzionare o esistere?, Vita & Pensiero, Milano, 2019.

[3] Han, B. C., La società della stanchezza, Nottetempo, Milano, 2020.

[4] Si veda, ad esempio: https://www.corriere.it/economia/lavoro/21_aprile_09/ansia-depressione-ragazzidopo-anno-teledidattica-pressione-pronto-soccorso-719630ba-98a0-11eb-a699-02d51c5755ff.shtml .

[5] De Certeau, M., L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2001.