Stiamo attraversando un periodo di cambiamento e trasformazione. Il cambiamento è sicuramente una condizione necessaria affinché possa esserci evoluzione e miglioramento, ma allo stesso tempo ci spaventa. In questo caso ciò che ha generato il cambiamento è stato un evento tragico ed epocale, una pandemia. Cosa pensi al riguardo?

Johnny: Una questione importante, su cui voglio soffermarmi, è quella del “trauma”. Le condizioni per il cambiamento sono sempre legate alle caratteristiche del trauma personale e, come in questo caso, collettivo. Il cambiamento non è qualcosa di diverso rispetto a quello che ci sta succedendo e se ci rifiutiamo di viverlo, non accadrà assolutamente niente.

Ma il trauma che caratteristiche ha?
Innanzitutto mette in discussione tutti noi stessi, non può rimanere traumatizzata una sola una parte di noi. Anche quando facciamo un incidente, ci possiamo spaccare una gamba ma rimaniamo anche scioccati, debilitati e, talvolta, ci deprimiamo anche. I traumi hanno questa caratteristica olistica generale e questa è un’indicazione: il cambiamento deve sempre comprendere le diverse parti di noi stessi, altrimenti è una riforma circoscritta ad una sola parte. In questo senso la parola che trovo più vicina a cambiamento è “trasformazione” (e non progetto o riforma). A volte ci sono cambiamenti che non si vedono all’esterno ma che, all’interno, dentro l’anima, sono invece profondissimi. Durante l’adolescenza ad esempio vediamo il corpo che cambia ma le trasformazioni che avvengono interiormente sono molto più forti dei cambiamenti esterni. La questione “interiore/esteriore” è fondamentale per provare a fare un’opera veramente trasformativa.
In secondo luogo, il trauma, affinché sia rimosso, deve essere prima accolto e attraversato. Per riuscire a cambiare dobbiamo accettare di entrare in un processo che dura nel tempo, attraverso il quale mettiamo al mondo sempre noi stessi e la realtà che viviamo, ma in un modo e con una postura radicalmente diversi.
Infine, il cambiamento non è un’illusione da proiettare nel futuro, ma la profondità di uno sguardo diverso sul presente. È per questo che faccio riferimento al trauma: ci costringe a guardare le cose in modo diverso, a farci guardare in modo diverso e a trovare dei compagni di viaggio che siano consonanti con questo tipo di sguardo.

ConversAzioni #1 con Johnny Dotti

Nel momento in cui prendiamo consapevolezza del trauma e vorremmo trovare un modo per far avvenire una trasformazione, come affrontare invece la paura, il timore e, dunque, l’immobilità che soggiungono? Quale può essere l’innesco che ci consente di agire?

J: Risponderò a questa domanda a partire da alcune parole chiave. ACCETTARE e CONDIVIDERE. La prima riguarda proprio l’atteggiamento da assumere: bisogna innanzitutto accettare la paura. Essa non è una cosa negativa perché rivela che qualcosa di davvero importante sta accadendo. Per accettarla, abbiamo bisogno di raccontarla a qualcuno, di condividerla, di narrarla, perché proprio così possono poi prendere forma le parole della speranza. La paura va affrontata con gli altri – e con “altri” non intendo solamente gli “uomini” ma l’intero cosmo di cui noi siamo parte inscindibile – in modo tale da non estraniarci dalla realtà e non perdere la speranza.
Il problema è piuttosto la paura della paura, che ci inchioda dentro le nostre sicurezze passate e i nostri timori di essere scombussolati.
Bisogna accettare che il cambiamento significa anche morire, lasciare andare, abbandonare. La trasformazione comporta sempre un lasciare uno spazio vuoto affinché possa entrare “il nuovo”, che non è una cosa appiccicata sul “vecchio” ma è fecondare uno spazio che prima era occupato da qualcosa d’altro.
ESSERE CONSAPEVOLI – Dobbiamo poi contestualizzare la paura del cambiamento nel 2020 e in questo periodo post-pandemia. Il più grande problema dell’epoca contemporanea è che ci troviamo in un mito completamente saturato dalla certezza e dalla sicurezza. Nella società della tecnica quello che conta è il know how e, nel momento in cui viene a mancare, andiamo in difficoltà. Qui scatta il blocco: non può esistere il “come” del cambiamento! Esiste un “perché” del cambiamento, un “con chi”, un “cosa” e un “mi piacerebbe” ma non esiste un know how, perché esso è una “memoria” generata dalla trasformazione in atto. Il “come” è una risultante, non una premessa. Dobbiamo essere consapevoli, allora, che ci troviamo in un contesto che ci allontana da questa postura e che abbiamo bisogno di elaborare una cultura del desiderio e della partecipazione e, quindi, un’abitudine e un’esperienza.

Quando parli di come il trauma coinvolga tutte le componenti di noi stessi, non possiamo non fare un parallelismo con la nostra società, che tende a vivere a compartimenti stagni, in modo funzionale. In questo periodo di blocco forzato,

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tutti quanti abbiamo capito, invece, quanto sia importante pensare e vivere in modo organico, collaborare, fare insieme; Siamo parti di un tutto e dobbiamo trovare un senso e una direzione comune. Abbiamo anche compreso il valore delle relazioni intergenerazionali, con i cui limiti e opportunità molti di noi, chiusi in casa durante la pandemia, si sono trovati a fare i conti. Vorremmo capire da te allora: cosa vuol dire agire in ottica intergenerazionale?

J: Avete detto “noi siamo una parte del tutto”. In realtà noi non siamo una “pars in toto”, ma una “pars pro toto”, la visione è ribaltata completamente. Siamo un “microcosmo”, non un pezzo di un puzzle, un “unicum”, che sta dentro il “macrocosmo”, lo rispecchia e contribuisce alla sua costruzione portando a compimento la propria personale vocazione.

Se siamo “pars pro toto” vuol dire che siamo stati messi al mondo da qualcuno e che a nostra volta metteremo al mondo qualcosa, che non potrà essere generato da nessun altro a parte noi. Questa consapevolezza è in sé intergenerazionale: ognuno è generato e genera a sua volta.

Non è un caso che la nostra società abbia rimosso questa idea, scivolando nel concetto di “individualismo”, secondo il quale ognuno dovrebbe crescere e vivere rendendo conto solo a se stesso. Non è un caso se durante la pandemia ci siamo ritrovati con il 35% dei morti delle RSA dalle mie parti (Bergamo), cioè 6000 persone anziane morte sole nelle residenze socio-assistite. È una risultante politica, economica, sociologica della visione individualistica del mondo. Questo è il principio della fine e anche quello della distruzione.

Affinché possa instaurarsi una relazione intergenerazionale sono necessari un tempo e uno spazio in cui possa avvenire anche un conflitto. Grazie ad esso diventiamo più consapevoli dell’altro e di noi stessi, ricomponiamo il senso della vita, la sua direzione, la sua affezione, la sua emozione, gioia e dolore. Questo vuol dire privilegiare l’esistenza alla funzione. Se non si fa questo passaggio è difficile poi significare e comprendere perché dobbiamo liberarci dalla certezza, dalla sicurezza.

Farei un secondo passaggio. C’è un tema che riguarda la memoria.
Se mettiamo l’esperienza al centro della relazione educativa la memoria, che sociologicamente sono gli anziani, è fondamentale. Se la eliminiamo tagliamo le radici dell’esperienza e impediamo che essa possa diventare coscienza, consapevolezza, cultura e quindi forme di vita politica, economia, spiritualità, per la pienezza della vita. Questo vale per le singole persone ma anche per le collettività, i popoli, il mondo.

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Durante la pandemia, mia figlia di 21 anni, ha deciso di fare volontariato andando a pulire le tombe. Qui la situazione è stata gravissima, nessuno dei famigliari poteva andare al cimitero, celebrare i funerali.
Questa sua scelta mi ha colpito molto, perché rappresenta un segno nobile di quel principio di consapevolezza. Penso che mia figlia si ricorderà certamente di quell’azione lì: piegarsi, usare uno straccio, andare a prendere l’acqua, gestirsi psicologicamente, forse avere anche paura e piangere. Questo rito di culto semplice, fatto nel silenzio e in solitudine, le ha consentito di fareesperienza integrale di se stessa: testa, mani, cuore. Io sono convinto che proprio qui ci sia un pezzo di trasformazione dell’anima e che abbia a che fare con il rapporto tra le generazioni. Capite che il trauma può essere molto importante, molto generativo?

Hai parlato di esperienza e di vocazione: che rapporto hanno queste due parole? Che consigli daresti a un giovane che sta cercando una sua vocazione, il proprio posto nel mondo?

J: Io uso la parola vocazione in termini molto laici. La vocazione è l’aspirazione e la dedizione per portare a compimento la propria unicità, il proprio essere al mondo e il proprio senso della vita. È l’intuizione profonda di qual è la propria aspirazione e poi la fedeltà a quella aspirazione, il processo che ci porta al compimento della stessa. Questo per me vale per una mamma, un ingegnere, una dottoressa, un sacerdote, un papà. In questo senso il taglio è vocazionale. Uno dei compiti fondamentali della relazione educativa è esattamente la scoperta della propria vocazione che è dolorosa, perché è come un parto, ma anche gioiosa. E questa è un’esperienza, per quello che faccio riferimento al parto. Non è una competenza, un tool, una skill, non è una serie di items che dicono “io sono fatto così”. Non è una cosa solipsistica, anche se richiede solitudine. Non è una cosa che si fa solamente attraverso le parole, perché richiede anche il silenzio. Non è neppure una cosa solo singolare ma è anche plurale. La vocazione è per me la condizione della gioia. Chi non trova la propria vocazione nella vita generalmente resta frustrato, resta triste.

Oggi viene spesso confusa con il funzionalismo, perché la società della sicurezza confonde la vocazione con la professione, il ruolo. Essa, invece, è la sintonia profonda che sentiamo con la realtà: è che tu respiri il respiro del mondo, che è anche il tuo respiro. Siamo sulla buona strada per avvicinarci alla vocazione quando ci capita di canticchiare sotto la doccia e non sappiamo perché. Oppure quando ci emozioniamo per qualcosa che improvvisamente ci

 

fa piangere. Ecco, quella lì è la vocazione, che poi prende delle forme umane e allora ci sono i talenti, le caratteristiche, le condizioni sociologiche, i posti dove vivere. Ma prima c’è il mistero di te stesso/a, di quel che siamo noi. In questo senso lo collego alla storia della memoria: stare vicino ad anziani che la loro vocazione l’hanno vissuta o non l’hanno trovata, è una ricchezza enorme che ci aiuta ad ampliare lo sguardo rispetto alla vita. Allora esperienza e vocazione sono due modalità per intendere un percorso che fa della concretezza l’elemento sostanziale della felicità.

Come (ri)costruire una relazione e uno scambio tra generazioni che siano basati sulla fiducia reciproca?

J: Da questo punto di vista il trauma dovrebbe favorire la costruzione di una fiducia reciproca, perché mette tutti nella condizione di non sapere, nessuno sa cosa succederà il prossimo anno.
La fiducia si costruisce allora a partire dalla condivisione della domanda, non dalla pretesa di ricevere una risposta che nessuno ha.

Inoltre, è possibile immaginare che l’autorità non sia solamente verticale ma anche orizzontale? La questione dell’autorità orizzontale significa fare esperienze di fiducia attraverso le autorizzazioni che siamo in grado di darci, non solo in un’idea binaria adulto-ragazzo, ma anche tra i ragazzi stessi.

Da questo punto di vista trovo che il metodo scout rimanga sano. Possiamo allenarci a costruire questa fiducia dicendo ad un bambino di 10 anni che si preoccupi di uno di 6 e ad uno di 6 che si preoccupi di uno di 3. Questo significherebbe andare rapidamente oltre le classi divise per età, abbiamo persino il catechismo diviso per età che è un’idiozia planetaria. Tra l’altro èanticristiano perché Gesù aveva nel suo gruppo adolescenti, adulti, giovani, donne. Sotto la croce c’era un adolescente, mica il Papa, San Pietro era scappato, lo aveva tradito bellamente.

Infine, serve ricordarsi che alcune cose le possono fare solamente gli altri, è importante delegare e dare fiducia. Questo per me l’altra persona la sente quando succede, non c’è bisogno per forza di renderlo esplicito. In questo modo, col tempo, si creano complicità e confidenza.

Credo, però, che questi spazi e tempi non esistano più, perché il funzionalismo li ha rimossi tutti. L’efficientamento dei processi, che genera minor costo dal punto di vista psicologico, economico e sociale, non prevede il tempo perso che è invece condizione fondamentale affinché possa essere costruita una relazione a base fiduciaria. La fiducia richiede tempo.