C’è un elemento comune in tutti gli ormai tanti casi che l’archivio raccoglie: si mette in moto un processo generativo quando qualcosa (un evento, una persona, una situazione, una memoria…) tocca la vita di qualcuno e la mette in movimento. Un movimento che si allarga, perché in grado di coinvolgere – in profondità e non solo “organizzativamente”, altre persone e quindi di costruire un valore in comune, un bene di cui in tanti ci si prende cura. Questo è il movimento positivo del contagio.
Il contatto e il contagio sono dunque due aspetti qualificanti del processo. Il primo, perché se qualcosa non si rivolge alla totalità di noi stessi (ragione e affetti, sensibilità e capacita progettuale…) difficilmente provocherà una trasformazione radicale, una scommessa non garantita, una messa in gioco totale di sé quale quella che tutti i casi raccolti testimoniano. Troppo spesso, per esempio, la politica si è limitata a una serie di fredde ricette, o é stata surriscaldata da una sollecitazione esclusiva dell’emotività. La vera politica, quella che genera cambiamento reale, come scriveva Hannah Arendt, è rinascita: prendere la parola e agire nello spazio pubblico, trasformandolo e trasformando se stessi. Ma lo stesso vale per la fede, per il credere in qualcosa che vada oltre il sé e i suoi interessi immediati.
“Contagio” è un termine ambivalente, del quale tendiamo generalmente a far prevalere la valenza negativa: un elemento si introduce nella nostra vita senza averlo scelto, e produce degli effetti su di noi, modifica almeno temporaneamente il nostro stato, è potenzialmente fonte di disagio, malessere, malattia, “contaminazione”.
Per questo siamo così diffidenti verso l’altro (che è sempre un potenziale “untore”, agente di una possibile contaminazione) e anche, paradossalmente, verso il nuovo, a meno che non si ponga in continuità con quanto già conosciamo, e sia situabile dentro qualche cornice rassicurante (il progresso tecnico, la rinascita economica..).
Questo spiega anche l’attuale preferenza per forme relazionali che consentono una qualche forma di contatto (visivo, acustico) prevenendo nel contempo la possibilità di contagio: dall’intimità non reciproca a distanza dell’immagine televisiva alla relazione “risk free” dei social network, dove la disconnessione è rapidissima e indolore nel caso l’altro si faccia troppo “vischioso”. E, soprattutto, dove lo schermo funziona da interfaccia protettiva, asettica e “immunizzante”.
Lo scriveva il filosofo Esposito: siamo passati dall’aspirazione alla communitas a quella alla immunitas. Il “contatto senza contagio” è diventato il nostro ideale. Del contatto abbiamo bisogno, il contagio ci fa paura: non vogliamo che niente e nessuno ci cambi, produca degli effetti su di noi. Effetti che ci fanno paura, perché non li abbiamo scelti, e non li controlliamo.
E poi c’è la modalità almeno apparentemente “neutra” del contagio come mimesis, come imitazione sociale che produce cambiamento per diffusione; come accade, per esempio, per la moda. Ma è un contagio in cui non si entra veramente in relazione con l’altro, bensì con la sua immagine. In cui non si cambia, se non superficialmente.
La paura del contagio è legata all’insicurezza, e spinge e una postura difensiva, alla chiusura dei propri confini. In un periodo di crisi come quello che stiamo attraversando, questo è un atteggiamento diffuso, quasi legittimo, comunque comprensibile.
Oppure, la paura del contagio è di chi teme di perdere i propri privilegi, e quindi si rinchiude al sicuro nella propria fortezza dall’accesso controllato (l’immagine più emblematica è quella delle gated communities). Per essere “toccati” solo da chi abbiamo scelto, da chi ci assomiglia, ed evitare spiacevoli contaminazioni.
Ma le storie raccontate nel sito aprono uno scenario diverso. La nostra vita è toccata, profondamente, da cose che non abbiamo scelto. Spesso sono esperienze dolorose (una perdita, un distacco, una crisi) che aprono un varco nel nostro mondo abituale, nelle certezze rassicuranti, nella nostra corazza difensiva. Delle ferite-feritoie che consentono a un senso diverso di entrare, toccarci e metterci in movimento, in una direzione che prima semplicemente non si riusciva a vedere.
La vulnerabilità (da vulnus, ferita) può essere non solo una condizione subita in qualità di vittime, ma uno stato che, anche nostro malgrado, ci lascia più aperti di quanto vorremmo essere. Una situazione, dunque, paradossalmente propizia per l’accadere di qualcosa di generativo, che certo in assenza di questa apertura e potenziale ricettività non può avere luogo.
Lo si vede bene nel caso di Riace: lo straniero povero e disperato che viene dal mare, fonte di potenziale contagio per una popolazione già a sua volta provata da una illegalità che ha logorato gli animi e delusa da un turismo mai decollato attorno ai mitici bronzi, da minaccia diventa risorsa. Non lo si rimanda in mare, non gli si chiudono le porte, ma gli si aprono le case, e si comincia a lavorare insieme. Una generatività contagiosa, che coinvolge la popolazione, dialoga con le istituzioni, attira persone da fuori: un turismo etico, anziché artistico (ma le cose non si escludono…).
Invece di proteggerai dall’altro per paura di essere feriti, aprire una feritoia per lasciar entrare l’altro e mettere così in moto un processo di cambiamento “inclusivo” è una via generativa possibile, come questa e tanta altre storie vere testimoniano.