L’essere umano è un “animale sociale”, scriveva Aristotele. Ma è anche un animale simbolico, come lo ha definito Cassirer perché, a differenza degli animali, non ha mai un rapporto immediato, di puro adattamento e strumentalità, rispetto all’ambiente naturale. Per l’essere umano la natura esiste solo in quanto ‘abitata’, sosteneva Romano Guardini. E per l’essere umano il mondo, è una ‘foresta di simboli’, che dialogano tra loro e con noi in una unità di risonanze, come scriveva anche Baudelaire nel linguaggio della poesia:

La natura è un tempio dove colonne vive

mormorano a tratti parole indistinte.

L'uomo passa tra foreste di simboli

che l'osservano con sguardi familiari.

Come echi che a lungo e da lontano
tendono a un'unità profonda e buia
grande come le tenebre o la luce
i suoni rispondono ai colori, i colori ai profumi.

Profumi freschi come la pelle d'un bambino
vellutati come l'oboe e verdi come i prati,
altri d'una corrotta, trionfante ricchezza

che tende a propagarsi senza fine- così
l'ambra e il muschio, l'incenso e il benzoino
a commentare le dolcezze estreme dello spirito e dei sensi.

Anche la dimensione rituale, da Durkheim in avanti, è riconosciuta come un “collante sociali” fondamentale, che periodicamente rinnova il senso di appartenenza attraverso segni e gesti che producono identificazione e sintonizzano le emozioni dei partecipanti, rigenerando il senso di unità e identità, di continuità col passato e fiducia nel futuro.

Il rito è il linguaggio del simbolo, ed è simbolico esso stesso, poiché mette insieme, congiunge (sun-ballo, da cui, appunto, simbolo) due diversi livelli di realtà: tradizionalmente, il sacro e il profano, ma più generalmente il visibile e l’invisibile, l’individuo e la collettività, la tradizione e la proiezione nel futuro. E anche il rito, come il simbolo, ‘non è né astratto né concreto, né razionale né irrazionale, né reale né irreale: è sempre entrambi’. (Carl Gustav Jung)

Qui sta la concretezza del simbolo e del rito: superare le dicotomie artificiali, le separazioni (astrazioni) arbitrarie, per restituire la complessità e ricchezza delle dimensioni effettivamente intrecciate nelle nostre vite, ‘l’aggrovigliata trama dell’esistenza umana’ (Cassirer).

Etimologicamente il simbolo è un oggetto (una moneta, un piatto, una piccola scultura) spezzato in due e conservato dalle due parti di una relazione, che anche a distanza di tempo è in grado di testimoniare un legame originario, una unità profonda.

È un elemento concreto, tangibile, che però non si può ridurre alla dimensione materiale; ha un significato in sé ma anche un significato che lo trascende, che apre a una dimensione ulteriore.

Le due fedi nuziali, per esempio, sono simbolo del vincolo del matrimonio: ciascuna rimanda all’altra, ed entrambe rimandano a una dimensione intangibile, il legame profondo e duraturo degli sposi.

Il rito è il linguaggio del simbolo. Ha una concretezza che però rimanda a qualcosa di più grande, alla durata del tempo, alla comunità.

Il rito non obbliga all’appartenenza, come la legge, e non utilizza elementi razionali di convincimento, ma coinvolge convocando la dimensione affettiva. Facendo leva sul bisogno di unità, di pienezza, di appartenenza, di identità che caratterizza l’essere umano in quanto tale, il rito utilizza e armonizza una serie di elementi, che attivano la dimensione sensoriale più immediata anziché solo quella razionale (da qui l’importanza della comunicazione non verbale – le distanze, le posture, la prossemica, e delle sollecitazioni sensoriali attraverso canti, profumi, colori, forme di contatto eccetera), favorendo una intensità esperienziale e un coinvolgimento emozionale profondo, che lascia tracce, apre finestre, mette in moto processi: laddove il simbolo non è ridotto a mero emblema di appartenenza, è capace di risvegliare e mettere in moto il pensiero e la vita.

Cosa succede al rito in una società secolarizzata e tecnicizzata come la nostra? Basta guardarsi intorno per capire che la dimensione rituale non solo non è scomparsa, ma pervade tutti gli ambiti della vita sociale. La differenza è che oggi i riti hanno mantenuto solo la loro direzione orizzontale (rafforzare il senso di coesione e unità attraverso una forma di “sintonizzazione emotiva”), perdendo invece quella verticale, di linguaggio che mette in relazione con la dimensione del sacro, del mistero, dell’invisibile, dell’infinito.

Oggi ai simboli subentrano gli idoli, che ne sono insieme un surrogato e l’opposto: il simbolo, infatti, apre. Rimanda, attraverso sé, al di là di sé. È una finestra.

L’idolo, invece, non invita ad altro da sé, ma è una immagine “piena”, sigillata nella propria autosufficienza. È uno specchio.

L’idolo sembra dunque soddisfare il desiderio di autosufficienza tipico del nostro tempo.

Se non vogliamo fermarci alle funzioni, alla logica strumentale, all’efficienza, ma vogliamo riaprire le nostre azioni a un significato profondo che insieme le animi e le porti oltre, vanno riscoperti i simboli e il pensare attraverso i simboli. Come scrive Ricoeur, infatti, non si pensa ‘il’ simbolo, ma si pensa ‘nel’ simbolo: in un dinamismo che, riconoscendo i legami visibili e nascosti, trova vie nuove, inaugura cammini non scontati.

L’azione sociale generativa è essa stessa un’azione simbolica, perché rimanda a un orizzonte che dà senso alla sua parzialità e insieme la sollecita a trascendere i propri limiti; perché contiene molto di più di quanto riesce ad esprimere, e dunque reca in sé un potenziale capace di sprigionare significati nuovi e inaugurare nuovi processi a partire da quanto già fatto.

Ci sono poi diversi simboli ‘generativi’.

Uno di essi è sicuramente la spirale, simbolo antico del cambiamento attraverso il movimento che espandendosi da un centro si allarga, produce energia, arriva lontano.

La spirale ha un elemento di circolarità, di ritorno, che non è però una pura ripetizione: il tornare indietro è sempre anche un elevarsi, o un allargarsi. Non c’è ritorno dell’identico, ma insieme continuità e mutamento, riconoscibilità e novità. Inoltre, la spirale è una figura aperta: a partire da un centro, da un punto riconoscibile si irradia un movimento che non si sa già in partenza dove porterà, o che forma finale raggiungerà, perché si sviluppa secondo una logica che si definisce via via, eppure non in modo casuale.

Dinamismo, cambiamento, espansione, sviluppo sono i suoi tratti. Morte e rinascita, continuità e mutamento, possibilità di avanzare all’infinito.

È presente in natura, dal tornado al nautilus, ma anche nell’arte, dai graffiti rupestri al cielo stellato di Van Gogh.

Jung riconosceva nella spirale un simbolo di rivivificazione della vita, nonché del processo stesso di individuazione attraverso il quale l’Io impara a ruotare attorno al Sè: “non ci si può sottrarre all’impressione che il processo inconscio sia mosso a spirale intorno ad un centro, avvicinandosi lentamente a questo, mentre le caratteristiche del centro si facevano sempre più distinte”.

Se pensiamo invece ai riti, certamente le Giornate della generatività hanno questo carattere: gesti concordati e condivisi che celebrano e comunicano una identità dinamica e un progetto di azione sociale (economica, culturale, politica) ma non in modo statico, o preconfezionato, bensì cercando di coinvolgere un numero crescente di persone, che portando il loro contributo ‘aprono’ la dinamica generativa in direzioni imprevedibili.

C’è grande bisogno di riti e di simboli, al quale si danno risposte parziali. Abbiamo sostituito al simbolo il brand e il logo, al rito la convention, che rispondono a un bisogno autentico ma offrono una risposta che senza un orizzonte più grande diventa autoreferenziale ed effimera.

La consapevolezza di un respiro più ampio e più profondo è essenziale per imprimere un passo realmente nuovo all’azione, dentro una visione che dia prospettiva e senso alle conquiste ma anche ai fallimenti; per coltivare un legame che faccia crescere tutti, per affinare una sensibilità al ‘non ancora’, all’infinito e all’invisibile, che regali insieme libertà e sollecitudine rispetto alla dimensione materiale dell’esistenza, sapendo che la realtà è molto più di quanto vediamo e maneggiamo, e può continuare a fiorire.