Certe cose siamo stati abituati a vederle solo nei film di Hollywood: grandi cataclismi naturali che scuotono cieli e oceani; virus sfuggiti a qualche laboratorio segreto che decimano la popolazione o la trasformano in orde di zombie; minacce che provengono dallo spazio sotto forma di colossali meteoriti o di razze aliene alla ricerca di nuovi pianeti da invadere. Pochi di noi nella loro vita hanno vissuto in prima persona qualcosa di simile. Tra questi, ad esempio, ci sono certamente coloro che ancora portano dentro di sé i ricordi della grande guerra: gli aerei che attraversano il cielo sganciando bombe qua e là, le corse nei campi o nei bunker nella notte mentre le sirene lanciano l’allarme, la scarsità di cibo. La maggior parte di noi invece no, certe cose le ha viste solo dalle poltrone del cinema oppure dal divano di casa.

Paradossalmente oggi, nel cuore dell’emergenza, siamo ancora qui, sul divano di casa, l’attenzione continuamente catturata dai diversi schermi che ci accompagnano da una stanza all’altra. Molte persone sono morte in queste settimane oppure si trovano a lottare disperatamente tra la vita e la morte. I dati dei nuovi contagiati e dei nuovi guariti ci accompagnano puntuali ogni giorno. Le immagini provenienti dagli ospedali riempiono le nostre case ventiquattrore su ventiquattro. C’è forse segno più emblematico di quanto sta accadendo delle piaghe lasciate dalle mascherine premute per ore sui volti di medici e infermieri? Oppure dei volti sconvolti delle persone malate intubate e attaccate al respiratore? Sono queste immagini che, pur a distanza, ci fanno intuire che siamo di fronte ad una minaccia reale, che colpisce in profondità e che segna nella carne chi ne è toccato. È stato così anche in passato. Pensiamo alla peste: è nello scontro tra il corpo vulnerabile e l’invisibile minaccia esterna che va emergendo quell’ibrido che è il corpo malato, il corpo sofferente. Ieri corpo ricoperto di piaghe, oggi corpo attaccato alla ventilazione meccanica.

Eppure, nonostante questa non-fiction che stiamo vivendo, sembra che qualcosa ancora non quadri. Qualcosa è accaduto troppo rapidamente, troppo inaspettatamente. Non si tratta solo della gestione della crisi medica e della difficoltà a fronteggiare tecnicamente e professionalmente un’emergenza di tale portata. C’è dell’altro. Qualcosa che avevamo rimosso e che ci ritorna addosso troppo velocemente perché possiamo evitarlo oppure tentare di parare il colpo.

Penso alle nostre vite vorticose di qualche settimana fa. Vite mobili, galoppanti tra casa e ufficio, tra ufficio e palestra, tra palestra e bar, tra bar e supermercato, tra supermercato e pizzeria, tra pizzeria e cinema. Vite che facevano dell’attraversare, dell’andare la loro condizione di possibilità. Vite che si reggevano sul movimento perpetuo come principale meccanismo attraverso cui mantenere un equilibrio, attraverso cui reggersi in piedi.

Per i nostri nonni, per coloro che avevano vissuto in tempo di guerra, era stato diverso. La loro vita si giocava in pochi chilometri quadrati: la casa, il cortile, la piazza del paese, al massimo il paese confinante. Erano contadini, operai, qualcuno di loro negoziante. Di fronte alla minaccia venuta dall’esterno non fecero altro che rimanere dov’erano, là dove avevano sempre vissuto. Certo, anche per loro la vita in tempo di guerra non era facile, anche loro avevano paura, anche loro sentivano l’assedio della morte alle porte di casa. Tuttavia, quella condizione di emergenza poteva essere da loro vissuta esattamente là dove era la loro esistenza, esattamente là dove erano a casa. Non solo a livello geografico e spaziale quanto soprattutto a livello psichico e sociale. Voci, gesti e volti di sempre si intrecciavano con suoni, edifici e paesaggi di sempre in un’unica tela quotidiana che, per quanto indebolita e squarciata dalla minaccia incombente, resisteva anche in tempi così difficili.

Per noi è tutta un’altra cosa. Dove siamo a casa? Che tessuto ha la nostra tela quotidiana? La nostra tela è presa in una perenne tensione tra dentro e fuori, tra quella che chiamiamo “casa” e la pluralità infinita di luoghi che ogni giorno velocemente attraversiamo. Forse le nostre vere case sono le automobili, i treni e gli aerei in cui trascorriamo la maggior parte delle ore della nostra giornata. Sono queste le “capsule” che ci permettono di fare del quotidiano un processo ininterrotto di circolazione. Forse le nostre vere case sono uffici, supermercati, bar e palestre. Sono questi i nostri poli psichici e sociali, i magneti che, componendo potenti campi di forza, tengono insieme la limatura frammentata delle nostre vite. Quando, come in queste settimane, la loro forza viene meno, quando diventa impossibile mantenere la spinta vorticosa, ciò che rimane è solo il silenzio. Un immobile, inquietante silenzio. Credo che, quando questi giorni saranno finiti, per tutti coloro che non avranno sperimentato direttamente oppure attraverso le vite di familiari e amici i terribili effetti della minaccia invisibile, ciò che rimarrà sarà proprio questo: una lunga forzata esperienza di silenzio.

Solo allora sapremo davvero cosa è stato, solo allora sapremo cosa abbiamo veramente vissuto. Un evento, infatti, non si dà mai in sé ma assume sempre il suo senso alla luce della risposta che sappiamo dargli. Non c’è evento senza risposta e non c’è risposta senza attribuzione di senso. Così sarà anche per il grande silenzio di questi giorni. Per tanti di noi molto probabilmente avrà soltanto la forma di un vuoto indistinto da riempire compulsivamente in attesa che si spalanchino di nuovo i cancelli dei luna park e che sia possibile tornare a girare sulla giostra più veloce che mai. Alcuni forse crolleranno anche prima: sfideranno divieti e controlli pur di evadere dalla propria prigione domestica e di tornare, anche solo per un’ora, all’antica euforia. Per qualcuno, invece, questo lungo silenzio potrà forse essere ricordato come il tempo dell’ascolto. Ascolto del mondo attorno a sé (qualcuno ha udito il cinguettio degli uccelli sugli alberi in questi giorni?), ascolto dell’altro vicino a sé (quante parole ci siamo detti in queste lunghe ore insieme?) ma, soprattutto, ascolto dell’altro dentro di sé (quante paure e angosce ma anche quanti sogni e desideri sono andati riaffiorando?). Nulla di scontato, nulla di automatico, sia ben chiaro. Anzi, proprio contro la facile retorica della riscoperta della “natura”, delle “relazioni” e dell’“interiorità” è necessario provare ad essere all’altezza dell’evento che oggi siamo chiamati a vivere. Un evento che certamente ha in questo lungo faticoso silenzio comune uno dei suoi tratti più profondi e, forse, nella riscoperta della parola autentica la grande possibilità di dire insieme e inscindibilmente l’inquietudine della minaccia e la speranza del ritorno