La prima questione che vorrei porre è la seguente: un figlio è qualcuno che viene a confermare le attese di chi l’ha messo al mondo, in altre parole a confermare le aspettative dei genitori e con esse gli equilibri preesistenti? A stabilizzare gli assetti narcisistici di un padre o di una madre? O, al contrario, in quanto incarnazione del mistero dell’umano e della sua trasmissione, rappresenta sempre l’inatteso, quell’incognita che inevitabilmente arriverà a interrogare alla radice il desiderio di questi ultimi?

Che cos’è un bambino per la madre

(o rigenerare la finitezza, propria e dell’altro)

Prendiamo in considerazione due celebri dipinti. Il primo è la Madonna del parto di Piero della Francesca, un affresco che si può ammirare a Monterchi: la scena ha un chiaro impianto teatrale, Maria, incinta, è come fosse su palco il cui sipario è manovrato da due angeli che scostando le tende rivelano al pubblico – a noi – il mistero dell’incarnazione. Come si vede, la maternità non è più, qui, un fatto privato tra madre e bambino, è consegnato a dei testimoni. È un accadimento che, per quanto carico per entrambi gli attori di ineffabili suggestioni, non può rimanere più del necessario ostaggio della loro intimità. Pur con tutte le remore e i rimpianti del caso, saranno d’altronde essi stessi, prima o poi, ad avvertire il bisogno di sciogliere il loro stato simbiotico per dischiudere alla relazione un orizzonte più ampio, di maggior respiro.

L’altro dipinto è L’annunciazione di Lorenzo Lotto: qui è invece del tutto chiaro come l’atteso per eccellenza sia il veicolo di un inatteso che scompagina gli equilibri esistenti (perfino quelli di Dio), un inatteso a cui solo una buona gestazione saprà garantire un’evoluzione nei modi e nei tempi dell’umano. Ma è evidente come in questo momento la donna, che appare angosciata, impreparata alla cosa, non abbia ancora la certezza di portare in sé il bambino: ciò che la occupa, e a tratti perfino la ingombra e la inquieta, è per adesso questa Cosa in attesa di una forma e di un nome di cui avverte in sé la presenza e che staziona ancora ai bordi dell’umano.

Esiste un momento topico dell’individuazione del bambino: la fase dello specchio che ha luogo tra i sei e i diciotto mesi (e che è stata teorizzata dal più importante degli epigoni di Freud, Jacques Lacan). È in questo momento che il sentimento della vita fa breccia nell’esperienza del bambino, quel piccolo corpo ancora infans (cioè non parlante) portato dal genitore davanti a uno specchio perché possa riconoscersi, scoprire di avere un’immagine e scoprire una realtà che le gira attorno, Ora, ciò che è decisivo in questa scena non è solo la valorizzazione ed erotizzazione dell’immagine del bambino ad opera dello sguardo e della parola materna.

In realtà si riverbera su di lui un elemento identitario ancora più sostanziale per il suo destino di uomo. La madre infatti non si limita a vedere nel figlio un unicum, investe di una qualità speciale e comunque a suo modo libidica anche tutto ciò che in lui testimonia della sua appartenenza al genere umano. A questo livello, la Gestalt, la buona forma, è quella che riconduce l’unicità dell’individuo alla somiglianza con i suoi simili. Succede allora che, pur godendo del tratto di unicità del bambino, la madre si mostra allo stesso tempo compiaciuta della sua condizione genericamente umana, del grado di fraternità che il suo piccolo può vantare coi propri pari. Ecco il sentimento della vita, vita umana: qualcosa che ci fa essere speciali e comuni allo stesso tempo.

D’altronde, solo se una donna si mostrerà così folle da pensare e sognare l’autonomia e il destino umano, cioè già politico, di quel piccolo essere che al momento trattiene in sé come il bene più prezioso, allora quell’organismo che vive e si nutre di un altro corpo sarà sollecitato ad aprirsi un varco e affacciarsi sul mondo. Si scoprirà a sua volta attraversato, trafitto, da un larvale desiderio di divenire, esso stesso, corpo. Avvertirà l’urgenza di prodursi in una ancora non ben identificata discontinuità dall’esistente. Dobbiamo infatti supporre, già agli esordi della vita, l’esistenza di una dinamica che spinge il vivente in direzione opposta a quella che lo vedrebbe crogiolarsi nella certezza del confort intrauterino.

Una buona madre, scrive un altro grande psicoanalista, Winnicott, funziona come il primo specchio del bambino, ma bisogna che il suo sguardo agisca come uno specchio non da guardare ma in cui guardare. In cui guardare per affacciarsi su un mondo che è al di qua e al di là della loro relazione, il mondo dell’Uomo.

 

Cos’è un bambino per un padre

(o la continuità dell’esperienza umana)

In questo caso ci serviremo invece di alcuni passi del romanzo di Cormac McCarthy La strada, particolarmente significativi per intendere in cosa debba realmente consistere una generatività realmente paterna, cioè non paga di se stessa ma piegata alle esigenze della trasmissione. Succede dunque che, cercando di sopravvivere in un mondo ormai incenerito e in preda a bande di feroci predoni, di tanto in tanto il padre avverta la necessità di riportare il figlio al compito civile che li accomuna, e lo fa ricordandogli che “Noi portiamo il fuoco”. Con un po’ di malignità, potremmo già notare qualcosa su cui torneremo, e cioè che la scelta di un pronome declinato al plurale – “noi” – indica qui la presenza di un adulto che sembrerebbe non aver fatto parte, a suo tempo, della gloriosa generazione della contestazione: sappiamo bene, infatti, quanto poco sia nelle corde dei genitori appartenuti a quella generazione riconoscere ai nuovi arrivati un desiderio deciso quanto lo era stato il loro.

Ma arriviamo al passo in cui, tra il bambino e il padre che sa di essere prossimo alla morte, assistiamo a un dialogo intenso e serrato, intriso di dolore eppure non privo di tracce di speranza. “Voglio restare con te”, insiste il figlio in preda all’angoscia dell’abbandono. Al che il padre risponde che non può, perché adesso è lui, il bambino, che ha il compito di portare il fuoco, è lui che deve raccogliere il testimone. Segue un rapido scambio di battute – “Non so come si fa”, “Sì che lo sai”, “È vero? Il fuoco, intendo” – nel quale si vede bene come il figlio necessiti da un lato di sentirsi ribadire la fiducia del padre mentre tenti dall’altro di sottrarsi al compito, come se un ultimo dubbio potesse, anche solo per un attimo, allontanare da sé il calice che gli è destinato. Tant’è che quando il padre gli conferma la sua fiducia – “Sì che è vero” (è vero che sai come si porta il fuoco) – il piccolo ostinatamente ribatte: “E dove sta? Io non lo so dove sta”.

Il transito potrebbe arrestarsi qui, nella rassegnazione di entrambi davanti alla caduta dell’illusione di una felice ed empatica osmosi intergenerazionale. Oppure la cosa potrebbe ridursi a un ammaestramento da parte del genitore, una lectio ex cathedra di educazione civica e impegno sociale, come non di rado usano fare i padri di oggi con gli “sdraiati”, quei figli rei di non poter vantare l’autodeterminazione e l’impegno civile che avrebbero a suo tempo caratterizzato l’attuale generazione adulta. Niente di tutto questo, fortunatamente, perché nel romanzo il padre mette in atto una mossa che permette alla partita di chiudersi nella giusta maniera. Semplicemente, gli dice: “Sì che lo sai [dove sta il fuoco]. È dentro di te. Da sempre. Io lo vedo”.

Questo atto di parola è il patrimonio, il vero dono del padre. Il dono che chiunque, nei più svariati contesti e situazioni, può fare a qualcun altro qualora si ponga (cosa non così scontata…) il problema della trasmissione: saper concepire e praticare il proprio tramonto come condizione per “far passare all’esistenza” qualcosa di nuovo e di altro in cui tuttavia torni a suonare la medesima vibrazione dell’umano che era valsa per lui da volano del desiderio. Non quindi qualcosa di già dato ma, per usare le parole di Lacan, “una nuova presenza nel mondo”. La vocazione dei padri, d’altronde, non è quella di durare, ma di ‘portare oltre’, cosa espressa in greco dal verbo metaphorein. Come si sa, per la psicoanalisi l’essenza e l’effetto della paternità sono riconducibili a quelli di una metafora che sgombra il campo dai corto circuiti intrafamiliari per preparare la strada all’avvento del figlio. Là dove, a livello della capacità riproduttiva del padre, avremmo dovuto trovare la conferma della sua potenza generativa, assistiamo invece al generarsi di un vuoto funzionale al passaggio tra una generazione e l’altra. Ma cosa vedono, allora, gli occhi di un padre?

Qualcosa che il giovane ancora ignora di avere in sé, un sapere che però un genitore, con acutezza, suppone al figlio (“Sì che lo sai”) e che dovrà trovare il modo di declinarsi nel tempo. È la fede, la fiducia nel figlio non come proiezione di sé al di là di sé, ma come promessa di un futuro possibile per l’uomo in quanto tale, per la civiltà stessa, cosa tutt’altro che certa e automatica ma oggetto primo della nostra speranza. In quel figlio il padre in questione coglie la promessa dell’umano. Nel momento infatti in cui questi si gira per l’ultima volta verso di lui, gli occhi del padre lo colgono “lì sulla strada voltato a guardarlo da qualche futuro impensabile, radioso come un tabernacolo in quella desolazione”.

 

Cos’è un figlio per i genitori, per il mondo d’oggi

 (o lo statuto paradossale del figlio nel XXI secolo)

La generazione adulta di oggi – che a suo tempo tanto amava i concetti di comune e comunità – ha dato alla famiglia un impianto di tipo nucleare sostanzialmente privatistico. Cosa che prevede la privatizzazione del figlio stesso, bene da custodire e proteggere più che far crescere. L’istituzione familiare è divenuta autoreferenziale. Il figlio è figlio del desiderio genitoriale, è spesso un figlio atteso e programmato. Da qui lo statuto paradossale del figlio d’oggi. Ne possiamo constatare tre effetti.

  1. 1. La figura del bambino è indubbiamente oggetto di un processo di sacralizzazione, ma si tratta di una produzione di sacro in stile moderno, cioè una ‘feticizzazione’ del figlio (ricordo che il feticcio è per natura un oggetto inanimato). Per capire la differenza tra queste due forme di trattamento della persona del figlio, pensiamo ad esempio al significato religioso di un rito come il Battesimo. Rappresenta il momento in cui il nuovo venuto viene inscritto nella comunità dei cristiani ed è semplicemente affidato ai genitori naturali (Marie Balmary esprime la cosa scrivendo che si tratta della “venuta per ogni essere alla sua origine al di qua della scena primaria”). In altre parole, per la nostra religione – che come si vede non è idolatrica ed è la religione non del Padre ma del Figlio – la vita del bambino non appartiene a chi lo ha materialmente generato ma all’Altro, a Dio (la cosa non è molto diversa dai riti di iniziazione che vedevano la consegna del giovane alla sua cultura d’appartenenza). Per quanto possa sembrare paradossale, la famiglia deve di conseguenza, lei per prima, riconoscere la sacralità del figlio, ma non in termini appunto idolatrici ma in quanto entità altra da sé, e ciò ne fa un’istituzione attraversata da un certo lutto, visto che, nel corso del tempo, dovrà più volte cedere sulla proprietà di ciò che ha generato. Inevitabile, altrimenti, che il destino del bambino d’oggi risulti in qualche modo segnato dal fatto di essere, almeno in parte, un oggetto allucinato del desiderio degli adulti più che una persona reale.
  2. 2. Il figlio gode di una libertà, visibilità e centralità senza precedenti, ma allo stesso tempo, in quanto risultato del progetto narcisistico dei genitori, è un ‘sorvegliato speciale’. Si tratta di un’eclissi soggettiva e allo stesso tempo sociale della quale sono vittime tanti giovani d’oggi che, anche in conseguenza della crisi economica e occupazionale, sembrano individui programmati per non crescere e per esistere in uno stato d’eccezione. Dei non-cittadini parcheggiati in una sorta di extraterritorialità civile. È come se l’infanzia e l’adolescenza non fossero più epoche della vita, transizioni, percorsi che devono trovare la propria evoluzione e definizione, ma dei ‘paradisi fiscali’ che gli adulti assicurano al giovane pur che non abbia a pagare la tassa, il prezzo del divenire a sua volta adulto. Si realizza un’idealizzazione del bambino e dell’adolescente come figure del felice disimpegno. Il bambino non è più il perverso polimorfo freudiano, è civilizzato anzitempo, la sua presenza non è più un mistero interroga più il desiderio parentale. Dov’è finito il bambino reale? Ha perso ogni aura di selvatichezza? (Ci torneremo alla fine).
  3. 3. Tale esilio dorato non giova all’umore dei figli del XXI secolo. Divenire l’ago della bilancia della stabilità familiare li condanna infatti all’instabilità emotiva. D’altronde, come ci si può sentire nel momento in cui si è invitati da un lato a non crescere (cioè dispensati dall’assumersi responsabilità reali) e dall’altro a farsi carico di una serie di ‘irrisolti’ e di aspettative d’ordine affettivo e narcisistico dei propri adulti di riferimento? Se ci si pensa, non è una piuma il peso che grava sui figli, i quali percepiscono di dover rispondere, possibilmente senza fare troppe domande, dell’equilibrio psichico dei genitori: padri e madri che mostrano di aver bisogno della loro condiscendenza e solidarietà emotiva per stabilizzare la propria vita affettiva e per uscire indenni o, ancora meglio, dribblare i conflitti familiari. Da un lato, dunque, il voto inconfessabile dell’adulto è che il figlio si conservi intatto, rimanga uguale a se stesso, una sorta di bambola senza cicatrici immunizzata dalle ferite della vita; che, in altre parole, risulti incapace di nuocere alle aspettative di stabilità della generazione adulta in quanto, peraltro, non programmato per farsi sua antagonista (una condizione limbica che ricorda quelle fiabe nelle quali i protagonisti cadono vittime di un sortilegio che li isola in una bolla senza tempo). D’altro canto, assumersi la responsabilità di esaudire il bisogno di tranquillità e di eterna e spensierata giovinezza degli adulti moderni, che mal tollerano l’idea dell’invecchiamento e del passaggio di testimone (altro motivo di rottura del patto), significa paradossalmente crescere fin troppo in fretta, nella fattispecie farsi carico in proprio dell’altrui angoscia.

 

La resistenza del piccolo dell’uomo 

Il bambino è però una forma di resistenza umana: resiste a un’umanizzazione forzata e inventa la sua umanizzazione. Avverte la necessità di darsi una forma di identità che, senza rinnegare quella simbolica, fuoriesca in parte da essa. Come? Fondando l’appartenenza al genere umano e il proprio diritto di stare al mondo muovendo da un’angolazione supplementare a quella adulta. Come? Grazie al ricorso a ciò che non rientra nel dominio degli adulti o se si vuole degli ‘universali’, dei discorsi ufficiali. Da qui l’interesse che i bambini nutrono per il non umano, cose (sassolini o pietruzze che raccolgono) o animali; o figure immaginarie come i cartoni animati stessi.

In fondo ognuno di noi necessita segretamente di un fondamento altro, paradossale e a volte eccentrico della propria umanità. Per dirsi uomo deve in altre parole uscire dall’umano e farvi ritorno, trovare il proprio nome indicibile da affiancare a quello ‘ufficiale’. Deve separarsi dal proprio destino già scritto, de-siderare (cioè staccarsi dall’influsso delle stelle, sidera appunto). I riti di iniziazione contemplavano qualcosa del genere: non si trattava solo di purificazione, i giovani erano momentaneamente lasciati in un ambiente preumano (un po’ come il bosco nelle fiabe) perché, prima di entrare nel mondo adulto, ponessero una distanza tra sé e l’ordine del mondo. E in fondo questa è la condizione per poterlo rifondare e vitalizzare. Per prevenirne la necrosi.

Ma, per restare nel tema, passiamo ora a un altro grande racconto, Le avventure di Pinocchio di Collodi. Prima di divenire a pieno titolo umano, il corpo di Pinocchio subisce una serie di mutazioni: è legna da ardere, burattino semovente, cane da guardia, asino, e infine bambino. Ma la particolarità di tutto questo è che, dal suo inizio fino alla conclusione della storia, inanimato e animato, animale e umano, trovano di che convivere. Pinocchio non nasconde mai la piega straniante del suo carattere, e questo lo rende diverso da altri, più rassicuranti e prevedibili personaggi fiabeschi. Conserva in sé fino alla fine una sorta di residuo maligno, tra l’animalesco e il silvestre, che fa resistenza al destino di umanizzazione previsto per lui; mostra a più riprese fastidio per tutto ciò che incarna le istanze morali del mondo civile, non nascondendo una spiccata attrazione per le situazioni ai limiti del consentito e dimostrandosi attirato da personaggi alquanto loschi; predilige le forme incerte e tormentate della notte alle immagini ad alta definizione del giorno. È un fatto curioso, ma pur essendone il protagonista non perde occasione per attaccare la trama a lieto fine del romanzo e dilazionare così il momento della propria piena umanizzazione.

Pinocchio è la testimonianza vivente della fedeltà di ogni bambino – e probabilmente di ognuno di noi – al fondamento meno certificabile della propria identità. La cosa è constatabile perfino nell’epilogo della storia, nel momento della realizzazione del suo desiderio di assumere le sembianze di un bambino vero e proprio, in carne e ossa. Malgrado manifesti la gioia di scoprirsi tale, Pinocchio si mostra allo stesso tempo perfettamente cosciente del prezzo che sta pagando per tale conquista: “Era diventato un ragazzo come tutti gli altri”, ma, aggiunge Collodi, “allo specchio, gli parve di essere un altro”. È l’ammissione di un fatto più generale, e cioè che il raggiungimento della propria identità sociale non può che passare per una certa dose di alienazione cui si accompagna un sentimento di nostalgia per ciò che si va perdendo. Lo conferma la domanda che il protagonista pone a se stesso e che ogni piccolo o grande lettore si è già fatto: “E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?” (Come si vede, il nascondimento – ma forse in considerazione della sua origine boschiva sarebbe più opportuno parlare di ‘imboscamento’ – resta la cifra di Pinocchio, a partire naturalmente dalla sua predisposizione per la bugia). Come non ammettere che ci sia qualcosa di un po’ indigesto nel fatto che quel “pezzo di legno” che avevamo inseguito lungo le sue mille traversie possa essere sparito per sempre? Ora che è instradato nei binari canoni dell’umano, la tentazione sarebbe quella di concedergli una vita parallela e immaginare che da qualche altra parte continui a giocare a nascondino con la realtà.

Sorpreso dai suoi stessi pensieri, Pinocchio sente però il bisogno scusarsi. Di chiedere a tutti noi venia per essere stato colto da un rigurgito del suo passato di burattino e dall’inconfessabile tentazione di rientrare in quel corpo silvestre che giace in qualche angolo: una sorta di rimpianto per una condizione perduta e sacrificata in nome dell’umanizzazione. E allora, quasi a fugare ogni sospetto, con un’enfasi in cui risuona la negazione del suo moto nostalgico, rivolto al padre esclama: “Com’ero buffo quand’ero un burattino!”. Con questo rinnegare e deridere la sua origine altra, sembra dover compiacere i suoi lettori: il bambino “perverso polimorfo” – come lo chiamava Freud – è solo un brutto incubo.

… ma c’è anche un padre che sa contraddire la sua funzione civile

Se tuttavia staccassimo lo sguardo da Pinocchio, vedremmo quello che a Collodi non sfugge e che riguarda stavolta, però, il padre. Cosa sta facendo Geppetto, cosa lo occupa nel momento in cui il figlio, alle prese con la sua fase dello specchio, sta completando il suo processo di civilizzazione? Ebbene, Geppetto sembra scostarsi dalla scena, nulla in quel momento fa pensare a un padre concentrato sui suoi doveri, chiamato a vegliare sui processi di umanizzazione del figlio. Va in direzione opposta, appare interessato ad altro, per l’esattezza alla creazione di un oggetto dove compaiono elementi animali e vegetali. Niente che faccia pensare all’umano: sta disegnando una cornice “ricca di fogliami, di fiori, e di testine di diversi animali”. Come si giustifica questa stramberia?

Inatteso ma non così riprovevole, forse perfino salvifico, abbiamo qui modo di veder spuntare, solidale con quello del figlio, il tratto eccentrico, caparbiamente asociale del padre. Un padre che per tutta la storia ha rincorso il figlio nella speranza di fidelizzarlo al mondo umano e che ora, nel momento tanto atteso, appare distratto, quasi disinteressato alla cosa; al punto di scansarsi ribadendo la sua passione per il legno e svelando una certa predilezione per il non umano (d’altronde non avrà certo scelto a caso quel nome per il proprio figlio). Il minimo che si possa dire è che tale estemporanea esibizione della tecnica paterna ha come effetto, di rimbalzo, in retroazione, una sorprendente riabilitazione del “pezzo di legno”.

Alla fine della storia, la normalità – la messa a norma del corpo del bambino – è costretta a condividere il podio con qualcosa che le è discordante e di cui possiamo cogliere l’insorgenza là dove non ce lo saremmo aspettati, nel padre. Non c’è infatti solo un bambino che dentro di sé persiste nella sua natura altra e indomita, che fa segretamente resistenza agli sforzi della civiltà, nel padre stesso fa la sua apparizione un punto d’inerzia che, pur non facendo ostacolo al progredire dell’avventura umana del figlio, pur tuttavia testimonia di un’altra incomprimibile e forse altrettanto umana necessità. (A riprova di come per ogni genitore si ponga l’esigenza di rimettere in discussione il proprio status quo, di lasciarsi attraversare dalle crisi del figlio per interrogare il proprio desiderio)*.

 

* Molti dei concetti espressi in questo intervento fanno riferimento ad alcuni testi del relatore: La restituzione (Feltrinelli 2011), Istituire la vita (Vita e Pensiero 2014), La costola perduta (Vita e Pensiero 2017) e, nell’ultima parte in particolare, Le età del desiderio. Adolescenza e vecchiaia nella società dell’eterna giovinezza (di prossima pubblicazione presso le edizioni Feltrinelli).