La centralità (perduta) del lavoro

C'è carenza di personale, ma ci sono 2 milioni di giovani che non lavorano e non studiano: come recuperare il rapporto generativo tra mondo delle imprese, istituzioni pubbliche e persone reali?

di Mauro Magatti
17 Ottobre 2022

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Oltre alla questione energetica, uno gli squilibri che sta colpendo l’economia italiana riguarda il mercato del lavoro. La carenza di persone – dagli operai specializzati ai medici – costituisce una grave strozzatura del nostro sistema. Capita sempre più spesso di parlare con manager e imprenditori che considerano la mancanza di personale un grave limite alla possibilità di cogliere le occasioni di crescita.

Ci sono diversi fattori – alcuni strutturali, altri congiunturali – che spiegano questa sorprendente e, per molti aspetti, paradossale situazione. Se in Italia abbiamo carenza di personale e contemporaneamente 2 milioni di neet (giovani che non lavorano e non studiano) evidentemente c’è qualcosa che non va nell’ incontro tra domanda e offerta di lavoro.

In primo luogo, si deve richiamare la cronica incapacità del nostro paese di mettere in piedi politiche attive che permettano con più facilità il passaggio dalla scuola o dalla disoccupazione al lavoro. Nonostante la nascita di tante società di intermediazione, l’accesso al mercato del lavoro – e ancor prima la questione dell’orientamento – rimane un problema ancora in buona parte da risolvere. Al di là delle tante parole, ben poco è stato fatto per migliorare l’osmosi tra mondo della scuola e mondo del lavoro. Osmosi che non va intesa come dipendenza della prima dal secondo, ma come sforzo per evitare di tenere i giovani in una bolla di astrazione che li estranea dalla realtà. Specie i più fragili.

In secondo, la strozzatura del mercato lavoro nasce dal sommarsi di forte accelerazione del Pil registrata negli ultimi 18 mesi (ora peraltro in forte riduzione), rapide trasformazioni tecnologiche e, di conseguenza, nuove competenze richieste. Ad esempio, viene segnalata la scarsità di tecnici in grado di installare impianti per le energie rinnovabili. Ma mancano anche esperti nei sistemi digitali avanzati, che stanno velocemente diffondendosi in tutto il sistema economico.

C’è poi la questione demografica. Sono anni che sappiamo che il paese è in declino. Ma poco o nulla è stato fatto per invertire la tendenza (a parte il recente ma tardivo family act). Il problema è che, in questo momento, si combinano l’uscita del mercato del lavoro della generazione dei baby-boomers con l’arrivo dei millennials – nettamente meno numerosi dei loro padri. Il tasso di sostituzione è ben lontano dall’essere coperto e questo crea carenza di personale. A tutto ciò, si deve aggiungere la fuga di molti ragazzi, che negli ultimi anni hanno lasciato l’Italia alla ricerca non tanto di un posto di lavoro, ma di condizioni professionali più adeguate alle loro aspettative. Senza contare che non è stata fatta nessuna politica per attirare giovani stranieri nel nostro paese. Le polemiche di questi anni ci hanno resi ciechi sulle opportunità che potrebbero derivare da politiche migratorie intelligenti.

Ancora, si deve sottolineare la dissonanza tra la concreta esperienza del lavoro – che nella stragrande maggioranza dei casi comporta per i giovani una prolungata fase di ingresso, caratterizzata da precarietà e scarsi guadagni – con il contesto protettivo circostante. Si è molto parlato del reddito di cittadinanza come fattore di scoraggiamento alla ricerca del lavoro. Affermazione che è vera solo in alcune aree del paese. Ma non si deve dimenticare che il primo fattore protettivo è la famiglia, e più in generale il livello di benessere diffuso in cui si trovano i giovani. Col risultato che, a differenza di quanto accadeva per le generazioni precedenti, la necessità di lavorare è oggi meno stringente. L’ offerta di lavori precari o di stage mal pagati non può certo stimolare a lavorare chi comunque può contare su risorse economiche (pubbliche o private) che gli consentono di vedere garantito il livello di consumo a cui aspira.

Infine c’è la questione che riguarda il cambiamento culturale che sta trasformando l’etica del lavoro delle nuove generazioni. Si tratta di un cambiamento articolato e tutt’altro che omogeneo. La costante è la perdita di centralità esistenziale del lavoro. La ragione sta nel fatto che le nuove generazioni sono alla ricerca di equilibri più bilanciati tra le diverse componenti dell’esistenza: lavoro, tempo per sé, relazioni, interessi etc. Con tutte le ambiguità del caso: da una parte, i giovani chiedono più flessibilità, attenzione alla sostenibilità, qualità delle relazioni di lavoro. Dall’altra, come riferiscono ì responsabili delle risorse umane, la prima domanda di chi oggi fa un colloquio di lavoro riguarda i giorni di smart working. È in questa cornice di mutamento dei valori di riferimento che va inquadrato anche il fenomeno delle “grandi dimissioni”, cioè l’abbandono da parte di giovani occupati di posizioni lavorative stabili. In un mix tra il desiderio di una vita più piena e l’incapacità di sostenere l’inevitabile tasso di frustrazione derivante dal rapporto con la realtà.

Aldilà degli aspetti più contingenti (la forte crescita dell’economia nell’ultimo biennio) rimane dunque un problema di fondo che dovrà essere affrontato nei prossimi anni: come ricomporre la scissione tra sistema economico, assetti istituzionali e orientamenti culturali? Il disallineamento – che in questi mesi sta toccando dei livelli di allarme – va compreso e superato. La domanda è: quali sono le condizioni per far sì che il lavoro possa tornare a essere il perno di un legame generativo tra mondo delle imprese, istituzioni pubbliche e persone reali? Nella risposta a questa domanda è contenuto buona parte del futuro dell’Italia.