Stiamo vivendo in un grande esperimento collettivo. Con il lockdown, 4 miliardi (!) di persone in tutto il mondo vedono stravolte le loro abitudini quotidiane e si trovano scaraventate in una condizione di  gravissima incertezza. Un dato per tutti: negli Stati Uniti, le domande per i sussidi di disoccupazione sono già  schizzate  a  oltre 10 milioni.

A traballare sono i pilastri stessi della vita sociale su cui si fonda la nostra “sicurezza ontologica” (Giddens):  la ragionevole aspettativa che ciascuno di noi ha di sapere quello che si può aspettare dalle persone e dalle istituzioni che lo circondano. Se il “mondo” nel quale la vita  quotidiana si svolge è una realtà dotata di senso, continuità e stabilità, quello che sta accadendo  ne costituisce una radicale messa in discussione. 

In queste settimane nelle nostre società si sta sedimentando un’enorme quantità di angoscia. Dove, con questo termine, si deve intendere quel sentimento di incertezza che ci paralizza (etimologicamente angoscia viene da angere, stringere, soffocare: la stessa sensazione di quando manca il respiro e si sente oppressione al petto). Una vera e propria interferenza nel senso di continuità dell’esistenza. Certo, sappiamo che il responsabile di tutto questo è il virus Covid-19, invisibile e sfuggente. Ma oltre ai tanti aspetti che  ancora ignoriamo sulla dinamica del contagio e della malattia, quello che ci angoscia é che non sappiamo quando quest’epidemia finirà, quando avremo una cura o un vaccino e soprattutto cosa tutto questo comporterà nella vita di ciascuno. Di certo, i morti  sono ormai già così tanti da aver toccato le cerchie  familiari o amicali di molti, mentre non si contano quelli che hanno già visto il proprio reddito azzerato.

Nel suo libro Angoscia e politica F. Neuman  ha sostenuto che la diffusione di questo stato d’animo fu alla base del sorgere del nazismo nella Germania degli anni 20. La ragione sta nel fatto che l’angoscia  crea uno stato ansiogeno tale  da innescare  potenti dinamiche di aggiustamento. Una diagnosi che non dobbiamo dimenticare se non vogliamo finire travolti dall’accumulo di tensione di questi giorni.

Potremmo dire che l’angoscia ha bisogno di essere scaricata a terra.

Un modo è quello di trasformarla in paura. Cioè in un oggetto concreto, delimitato, sufficientemente identificabile su cui concentrare la rabbia accumulata. Sta qui il pericolo di cavalcare, in  giorni come questi, le fake news  di chi accusa ora i cinesi ora gli americani di aver creato il virus. Nel quadro psicosociale nel quale viviamo, usare questi argomenti significa incamminarsi sulla via pericolosa che porta a  fabbricare un nemico contro cui  prendersela. Col rischio di favorire  l’escalation bellica.

Un’altra via passa dalla ricerca di un capo capace di  prendersi cura di noi e di ciò che non possiamo controllare. Ne ha parlato E. Fromm in Fuga dalla libertà:  gli stati di angoscia collettiva sono spesso il preludio di una svolta antidemocratica. L’autoritarismo, che già si diffonde in vari paesi,  diventa improvvisamente accattivante come via per calmare l’ansia che sovrasta interi popoli.

Se si riconosce la portata della destabilizzazione psichica che la crisi sta portando questi due esiti nefasti non possono essere esclusi.

Per questo, mai come in questo momento è fondamentale non fare passi falsi e imboccare fin da subito una  via diversa. Sulla base di quello che sappiamo, si può suggerire di tenere presente tre linee di lavoro.

Servono, prima di tutto, istituzioni autorevoli coese e ben funzionanti, in grado di dispensare quel senso di appartenenza e protezione di cui tutti sentiamo bisogno. Litigi, polemiche, incertezze sono intollerabili. Qui a contare é soprattutto l’azione di governo. Ma ugualmente importanti sono il modo in cui si pone l’opposizione e l’efficacia delle istituzioni che gestiscono l’emergenza – in primis la protezione civile e la sanità. E che dire dell’Europa se non che la sopravvivenza dell’Unione è legata alla sua capacità di porsi  come un grembo protettivo? Qualunque scelta si faccia, non ci sarà appello per le istituzioni di Bruxelles.

In secondo  luogo, occorre identificare obiettivi comuni. Non facciamoci illusioni. Non ci basterà né sarà possibile semplicemente tornare al passato. Il problema che abbiamo davanti è  si quello di  ricostruire. Ma in assenza di macerie. È perche non ci sono ponti, strade e case distrutte che  occorre capire quale società edificare. Tenere aperte le imprese è vitale. Ma ugualmente decisivo è capire dove e come investire per rigenerare una economia che non potrà che essere diversa da quella che abbiamo conosciuto.

Infine, non si deve dimenticare che l’angoscia tende a generare stati depressivi. Dopo queste settimane, non basterà dire alla gente di darsi da fare. Alcuni reagiranno in modo iperattivo. Molti, invece, non ne avranno la forza. Per  tornare a vivere occorrerà credere di nuovo nel futuro, darsi un perché. Una partita che si vince solo sbloccando le persone, rimotivandole  e soprattutto creando condizioni favorevoli all’ebrezza generativa della libertà. E questo sarà particolarmente vero per gli under40. Questa, in effetti, è la partita della loro vita. E noi più adulti possiamo e dobbiamo solo essere al loro servizio.