L’editoriale che apre il nuovo numero di Vita, in distribuzione da venerdì 6 settembre, a firma di Johnny Dotti, Francesco Gaeta e Andrea Rapaccini, autori del libro “L’Italia di tutti, per una nuova politica dei beni comuni” edito da Vita e Pensiero. «La definizione di bene comune non si esaurisce nel titolo giuridico di chi ne ha il possesso quanto nelle finalità a cui il bene risponde in virtù della sua rilevanza collettiva»

Come sostiene Paolo Cacciari (ripreso anche da Vita.it) il dibattito sui Beni Comuni pare giunto a uno snodo. La raccolta di firme del comitato Rodotà per una proposta di legge di iniziativa popolare — conclusasi in agosto — ha rialzato la soglia d’attenzione ma ha rimesso al centro del tavolo le contraddizioni connaturate alle varie anime del movimento. Come far sì che i «Beni Comuni mordano la realtà?» si chiedeva Cacciari. Proviamo ad articolare una risposta in due punti: chiarendo meglio la categoria di Beni Comuni e avanzando quattro proposte concrete rivolte agli attori in campo, a partire da quelli pubblici.

La definizione, innanzitutto. Noi pensiamo che prima che oggetti (res), i Commons siano un “sistema di relazioni”, tra persone, ecosistemi da preservare, strumenti e sentimenti. Ne discende che la definizione di bene comune non si esaurisce nel titolo giuridico di chi ne ha il possesso, e dunque nel suo essere o meno sottratto alla disponibilità del mercato, quanto nelle finalità a cui il bene risponde — la più ampia e partecipata fruizione possibile — in virtù della sua rilevanza collettiva. Ciò che rileva è infatti proprio il sistema di relazioni, cioè il patrimonio di fiducia, gli incentivi alla cooperazione, gli scambi reciproci di informazioni che si innescano tra i portatori di interesse a una gestione partecipata. Abbiamo appreso dal lavoro di Elinor Ostrom che questo sistema non è dato una volta per sempre, ma evolve a seconda dei casi, dei territori, delle fasi storiche. Relazioni, dunque, non titolarità. Come affermava lo schema di disegno di legge delega elaborato nel 2012 dalla Commissione Rodotà, i Beni Comuni sono «le cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona (…). Titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati. In ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati dalla legge». Si arriva qui a un punto chiave. I Beni Comuni non sono un tertium tra pubblico e privato, ma un’alternativa alle due categorie. È una zona sottratta alla disponibilità del pubblico come al do- minio del privato. In questo senso, pubblico e privato devono trovare forme e modi per andare verso il comune. E forse è il pubblico che ha davanti la strada più complessa. E possiamo riassumerla in quattro verbi.

Il primo verbo — integrare — indica la necessità di concepire e attuare in tema di beni comuni policy più che politiche, cioè superare l’endemica struttura a sylos di azioni e competenze. Sui Beni Comuni la politica degli enti locali e di governo sarà in futuro sinfonia orchestrata o non sarà. Perché non è dato avere sviluppo di un territorio che non si inquadri entro compatibilità ambientali, sociali, culturali; senza che tali compatibilità siano misurabili ex ante ed ex post; e, infine, senza che su compatibilità ed effetti — tanto in fase di progettazione che di valutazione — siano coinvolti tutti i portatori di interesse del territorio. Si tratti della gestione integrata di rifiuti o della messa a regime di un bene architettonico. Il concerto tra gli attori politici e la misurabilità delle loro azioni e dei relativi impatti è la premessa di un autentico ingaggio tra amministrazioni, settore privato, Terzo settore e cittadinanza. È insomma la condizione di una politica che crei valore condiviso e partecipato. La nostra proposta è istituire una “unità di economia sociale” in staff al policy maker che risponda al sindaco o governatore, e in cui siano presenti i dirigenti dei vari assessorati. Il valore aggiunto di questo organismo sarebbe quello di leggere in logica di community holder (ovvero non solo rappresentanze formali ma anche organismi di cittadinanza di base) gli impatti delle politiche dei singoli assessori e legarne le azioni in un’ottica di policy complessiva dell’amministrazione. Con una visione trasversale ai vari “dicasteri”, questo team di valutazione d’impatto sarebbe chiamato tra l’altro a valutare le principali operazioni straordinarie legate ai Beni Comuni, svolgendo un compito di due diligence socio-economica su opportunità e rischi prima che gli organi decisionali deliberino su scelte di spin-off, cessione, con- cessione o investimento. In seconda battuta, sarebbe chiamato a valutare nel tempo gli effetti di tali decisioni, perché l’amministrazione possa poi condividere tali dati, farne oggetto di dibattito pubblico e leva di riorientamento delle strategie future di policy.

Il secondo verbo è orientare. Per gestire i Beni Comuni l’attore pubblico (e non solo) ha una enorme necessità di prendere coscienza degli strumenti con cui svolgere valutazioni di impatto. Molti gli strumenti che gli esperti oggi considerano. Quel che conta, al di là delle tecnicalità possibili, è che il criterio di valutazione delle scelte non sia improntato esclusivamente al criterio economico, ma includa almeno le tre dimensioni ambientali, culturali e sociali. Proprio per la varietà degli strumenti e degli approcci, sarebbe a nostro parere opportuno giungere oggi a uno standard italiano di valutazione d’impatto condiviso da tutti gli attori della Pa, che consenta il confronto tra esperienze sui diversi territori italiani, e serva da base per azioni comuni, scambio di esperienze, condivisione di best practice.

Si pone a questo punto un tema di ruolo che attiene alla missione sociale degli addetti alla pubblica amministrazione. Il verbo da usare al riguardo è ingaggiare, variante rafforzativa di motivare. Esiste oggi — urgente — questa necessità: individuare e valorizzare luoghi e soggetti in cui la competenza può alimentare una vocazione al governo della cosa pubblica e dei Beni Comuni, anche (perché no?) attingendo al settore privato. Può questo luogo essere la Sna, Scuola nazionale dell’amministrazione? E se sì, a patto di quale riforma che la riguardi? Possono essere alcune imprese che un tempo si sarebbero dette parastatali (e oggi diremmo “di sistema”), che intreccino le loro azioni su obiettivi comuni alle pubbliche amministrazioni?

Siamo arrivati al quarto verbo: scegliere. Ogni scelta in tema di Beni Comuni significa per il pubblico amministratore valutare tra vari trade-off dando, di volta in volta, più peso all’ambiente o all’equilibrio di bilancio, all’inclusione sociale e all’accesso ad un bene piuttosto che alle compatibilità finanziarie. In materia di servizi idrici attualmente gestiti dal pubblico, solo per fare un esempio, si tratterà di “soppesare” il ritorno dell’investimento per l’azionista, valutando quanto peso dare all’efficienza del servizio (investimenti in infrastrutture di rete) o all’equità dell’accesso (tariffe accessibili a tutti), e ancora valutare forme di finanziamento di comunità (per esempio, hydro-bond a basso rendimento/rischio) che amplino la platea degli shareholder, come anche immaginare forme di governance che coinvolgano la cittadinanza (per esempio attraverso la partecipazione in cda di associazioni di cittadini)…