L’ espressione “beni comuni” traduce l’inglese “commons”, termine che sta a significare “beni di uso comune”. È nel corso dell’ultimo quarto di secolo che la questione dei beni comuni è letteralmente esplosa a livello mondiale.

I nodi sono giunti al pettine nell’ultimo ventennio, quando si è preso finalmente atto che la questione di beni quali aria, acqua, clima, sementi e fertilità della terra, conoscenza, biodiversità, cultura, fiducia sta ponendo una sfida inedita per il futuro dell’umanità. È un fatto, ormai da tutti riconosciuto, che la produzione e riproduzione di questi beni, essenziali per l’ordine sociale, pone una sfida seria all’intero assetto istituzionale, costituzionale, fino ad arrivare a quello economico-produttivo. I beni comuni esistono da sempre, ma solo dinnanzi al rischio del loro depauperamento si è finalmente presa coscienza del loro valore: asset imprescindibili per la qualità della nostra vita e per la sostenibilità dello sviluppo del pianeta.

Oggi sappiamo che il benessere (well-being) dipende non tanto dalla dotazione di ricchezza economica, ma da tre categorie di beni: privati, pubblici e comuni. Il bene comune e il bene pubblico però non sono la stessa cosa, anche se in questi anni c’è chi ha fatto di tutto per confonderli. La differenza consiste nel fatto che la fruizione di un bene pubblico non richiede forme di aggregazione, ossia viene fruito in maniera individuale, mentre il bene comune non solo è di tutti, ma per poterne godere è indispensabile una certa convergenza d’intenti e d’azione. S

ono beni la cui tutela è sempre correlata ad una dimensione plurale e comunitaria e non solo istituzionale. A ben vedere ciò che manca alle soluzioni privatistiche o pubblicistiche è proprio l’idea di comunità, appunto. L’idea vincente allora — rigorosamente esplorata da Elenor Ostrom premio Nobel per Economia nel 2009 — è quella di mettere all’opera le energie della società civile organizzata per inventarsi forme inedite di gestione comunitaria. “Il modello di gestione” diceva l’economista “deve essere congruente con la natura del bene: se questo è comune, anche la gestione deve esserlo”. Dentro questa visione diventa centrale l’attivazione dei cittadini spesso protagonisti di forme innovative di cura e gestione degli spazi urbani, di rigenerazione di beni abbandonati, di beni culturali inutilizzati. Solo 20 anni fa questi beni si rigeneravano attraverso percorsi “speculativi”o di “finanza pubblica”, oggi il loro futuro è in mano a quella spinta dal basso capace di restituirne una funzione “comune” attraverso un uso ed un governo democratico.

Per attivare questi nuovi processi di rigenerazione, che si tratti di una periferia, di una casa cantoniera, di una stazione, di un faro abbandonato, di un ex-fabbrica dismessa, non basta più l’intervento della Pubblica amministrazione, occorrono politiche che attivino fiducia e processi di collaborazione fra una pluralità di soggetti che non sono solo portatori di interessi, ma di risorse e di istanze di cambiamento. In questo senso il futuro dei beni comuni passerà anche dalla capacità dei nostri ammini-stratori nel saper abilitare il protagonismo delle comunità, utilizzando strumenti come i “Patti di Collaborazione” che dopo Bologna( 2014), si stanno diffondendo in tutto il Paese (a fine 2016 erano 104 i comuni che avevano adottato il regolamento). I beni comuni richiedono quindi un concetto diverso di utilità, capace di declinarsi poi in azioni volte a perseguire un interesse generale. Un esempio emblematico ci viene riflettendo sulla storia delle Dolomiti.

Se oggi sono diventate patrimonio dell’umanità, una buona parte del merito va agli usi civici — i commons per eccellenza — molto diffusi nelle aree interne delle zone alpine. La costituzione di queste diverse forme di regolazione, che in molti casi risale al 1200, ha consentito per secoli alle comunità locali non solo di soddisfare bisogni primari legati all’alimentazione e alla sussistenza, ma anche alla conservazione dell’ecologia del territorio. Lo stesso si può dire per le cooperative elettriche dell’arco alpino: un’esperienza che si colloca agli albori della elettrificazione in Italia e che scaturisce dalla collaborazione tradizionale degli abitanti in ambienti difficili come la montagna garantendo tuttora energia a oltre 300.000 persone ed autoproducendo l’energia elettrica in zone dove è difficile farlo.

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