Atelier dell’Errore  Vai alla Storia

Proseguire da quel che c’è, per quel che c’è

di Giuseppe Frangi

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Milanese, 1955. È giornalista con una passione sviscerata per la storia dell’arte. Dirige Vita dal 2001. Collabora con numerose testate italiane. Oltre al blog Ricchi e poveri, ne tiene un altro, Robedachiodi, sul sito dell’Associazione Giovanni Testori di cui è presidente.

L’Atelier dell’Errore è un’esperienza nata quasi per caso 14 anni fa, all’interno della Neuropsichiatria Infantile dell’Ausl di Reggio Emilia e da tre anni approdata anche a Bergamo. «I ragazzini che arrivano in Atelier avevano una cartella clinica con difficoltà in ordine sparso», racconta Luca Santiago Mora, fotografo e videomaker, ideatore e responsabile del progetto. «Fra le difficoltà più frequenti: ritardi più o meno gravi, difficoltà di apprendimento, dislessie, disprassie, sindromi dai nomi aggraziati e quanto mai traditori (Turette, X-fragile…), ipercinesi, fino al misterioso ed onnivoro contenitore dell’autismo».

L’Atelier dell’Errore non è una semplice esperienza di arte terapia. È qualcosa di diverso e di più, come attesta l’impressionante qualità dei lavori che vengono realizzati e che lasciano a bocca aperta anche gli addetti ai lavori. Non a caso una delle allieve, Giulia Zini («L’imperatrice dell’Atelier», la definisce affettuosamente Santiago Mora), ha vinto nel 2014 il più importante concorso di outsider art europeo, l’Euward 6, Art in Disability, che viene consegnato a Monaco di Baviera ogni quattro anni. «Molti dei ragazzini, in Atelier arrivano educati alla convinzione di non saper disegnare», racconta Santiago Mora. «O, peggio, arrivano a dire: “Io non posso disegnare”.

Che è il “non sai disegnare” inflitto a scuola, subìto e poi sublimato in formula assoluta. E allora è difficilissimo tirarli fuori da quelle convinzioni lì. Non sanno darsi fiducia, e così, all’inizio, pure in Atelier hanno paura, e gli sembra tutto difficile, e soprattutto, tutto ma proprio “tutto perfettamente inutile”».

Le ragioni del nome. È sin troppo facile immaginare perché l’Atelier di chiami così. L’Errore può essere letto come una franca ammissione dei limiti insiti nell’impresa. Invece il percorso che ha portato a quel nome è ben più intricato e intrigante. «Ho iniziato per caso e all’inizio mi sembrava proprio un errore stare lì pomeriggi interi, con loro», confessa Santiago Mora. «E questo è il primo motivo per cui noi siamo l’Atelier dell’Errore.

Poi ho scoperto che loro si sentono quasi sempre errori, grazie a noi normali: a scuola, sull’autobus, alle feste di compleanno dove non vengono invitati, mai. E questo è il secondo motivo per cui noi siamo l’Atelier dell’Errore. Ma anche che sull’errore si può costruire un meraviglioso metodo di lavoro per riscattare la facoltà poetica di questi ragazzini. Facoltà sconosciuta a molti, a me per primo. E questo è il terzo motivo per cui noi siamo l’Atelier dell’Errore».

Oltre al nome c’è il metodo. In Atelier nessuna retromarcia è consentita ed è vietatissima la gomma. Bisogna sempre andare avanti, «proseguire da quel che c’è e per quel che c’è», dice “maestro” Luca. «Che è un po’ quello che si capisce della vita, da grandi. Nobilitare una sconfitta, trasfigurarla in qualcosa di inatteso, di inaspettato, di insperato».

Alla matita si arriva più avanti. All’inizio ci sono i pastelli a cera, i cui segni restano sulla carta e non c’è verso di cancellarli. Spesso si fanno “errori” di calcolo, in quanto non ci si accorge che il foglio ha dimensioni più piccole della propria immaginazione: in questo caso ad un foglio se ne attacca un altro, e così via sino a comporre dei grandi puzzle di carta, in assoluta libertà.

Cos’ha di diverso l’esperienza dell’Atelier rispetto alle esperienze di outsider art? Qui l’energia è qualcosa di più che esito di un’istintività, perché si lavora attorno ad un qualcosa messo a fattor comune, che dà unità anche stilistica ai lavori, che li porta oltre il livello di un’espressività ossessiva. È sorprendente infatti la capacità che i ragazzini (hanno dai 7 ai 16 anni) hanno di “chiudere” i loro disegni, di portarli a un compimento oltre il quale un segno sarebbe di troppo.

Come pure è sorprendente la capacità di stare “al tema” assegnato, come dimostra la mostra milanese organizzata grazie al sostegno di Max Mara e della Collezione Maramotti, vera prova di maturità dell’Atelier. La mostra raccoglie i grandi disegni realizzati attorno al tema proposto per il lavoro di quest’anno, e che ribalta in modo genialmente efficace, il tema di Expo2015: “Uomini come cibo”. Cioè animali che mangiano gli uomini. Delicata rivincita verso quel resto del mondo che si pensa esente dall’“errore”.