Vecchio,
Diranno che sei vecchio,
Con tutta quella forza che c’è in te,
Vecchio
Quando non è finita, hai ancora tanta vita,
E l’anima la grida e tu lo sai che c’è […]
Vecchio, si,
Con quello che hai da dire,
Ma vali quattro lire, dovresti già morire,
Tempo non c’è ne più,
Non te ne danno più!
In questa canzone di Mariella Nava – nota come “vecchio” ma significativamente intitolata “Spalle al Muro” – e portata al successo da Renato Zero si esprime tutta la drammaticità ma anche la vera essenza della questione dell’invecchiamento e allo stesso tempo indica il fulcro sociologico non solo della “terza età”, ma dell’età in quanto tale. A sua volta proprio l’analisi sociologica dell’età è in grado di “riaprire”, nel modo che cercheremo di mostrare, la questione dell’invecchiamento e di farne esplodere nuovamente i molteplici significati che sono stati sterilizzati da una cultura comune miope rispetto alla genesi dei concetti e delle espressioni che si usano quotidianamente. Il problema infatti è proprio questo: si diventa vecchi perché “qualcuno” lo dice e dicendolo, performativamente lo stabilisce. E questo qualcuno – o qualcosa – è, per dirla con un lessico forse datato ma sempre efficace, il sistema. E’ il sistema a dirci che siamo vecchi. Ciò significa che questa designazione avviene sempre sulla base di precisi valori o, ancor più radicalmente, sulla base di una implicita antropologia che in questo caso identifica l’essere umano con la sua “forza produttiva”, confinando l’arco significativo della sua vita adulta a quella fase in cui è in grado di espletare quelle funzioni che risultano utili alle società tardo-moderne.
Quando la questione apparve in tutta la sua evidenza per la prima volta, il problema sembrava essere “semplicemente” quello del sopraggiungere di uno stato depressivo in quanti si sentivano spinti “fuori” dalla società che conta. Ma all’epoca, l’”anziano” estromesso poteva comunque usufruire di un sistema pensionistico tutto sommato efficiente e capace di offrire almeno garanzie economiche alla “vita dopo il lavoro”. Oggi, grazie all’aumento della nostra riflessività, abbiamo imparato che si diventa anziani per procura e che l’età sociale è ben altra cosa dall’età biologica o da quella psicologica (gli anni che ci “sentiamo” di avere). Ma il sistema, nel corso degli anni, ha a sua volta fatto tesoro di questa scissione tra le diverse dimensioni dell’età, complessificando ulteriormente il gioco a suo vantaggio. Oggi infatti possiamo imbatterci in diverse problematiche connesse con l’invecchiamento.
Da un lato è la società a chiederci, attraverso precise spinte culturali, di rimanere “forzatamente giovani”: si tratta di una tendenza, iniziata soprattutto come imposizione estetica e consumistica, a immortalare la nostra “giovinezza” (il cosiddetto processo di ingiovanilimento o mito dell’eterna gioventù). In seguito la società ha ampliato lo spettro semantico di questa esigenza a rimanere giovani, indicando come più adatto alla società dell’incertezza – Bauman lo scriveva già nel 1999 – quella persona dotata di maggiore fitness, cioè di un habitus capace di mantenerlo quanto più fresco e flessibile per riadattarsi in tempo rapido alle improvvise fluttuazioni di una società e di un capitalismo sempre più turbolenti. Si tratta, rispetto al quadro precedente, di una rivoluzione notevole, perché se prima, pur pensionandoci, era comunque la società a prendersi cura di noi, con questo invito al fitness si sta in realtà dicendo, sottovoce, che ora è il soggetto che deve pensare a sé. Detto altrimenti, quella parabola di vita – l’età adulta – che prima era breve ma almeno garantita, oggi non è più nemmeno tale e ognuno di noi deve impegnarsi con le proprie forze a “farla durare” e a prolungarne il più possibile la durata.
Ma la questione è più complicata ed ironicamente più amara. Perché il sistema non si limita a volerci più e sempre più giovani, ma continua allo stesso tempo a minacciarci, in ogni fase della vita, con quotidiane “sanzioni di vecchiaia”. In questi recentissimi anni, insomma, non esiste più nemmeno una “accettata” seppur convenzionale concordanza di età biologica ed età sociale circa il nostro “essere vecchi”. Per ognuno di noi la vecchiaia è sempre, quotidianamente dietro l’angolo, perché in ogni momento ognuno di noi può uscire dal sistema, come conseguenza di una iper-accelerazione nel pattern e nel ritmo dei radicali cambiamenti cui i nostri corsi di vita sono esposti. Non esiste nessuna posizione di rendita, nessun “capitale” accumulabile in una fase per poter essere speso in quella successiva, perché le regole del gioco che danno valore a ciò che quotidianamente accumuliamo in termini di esperienze, competenze, professionalità domani potrebbero essere già diverse. La società della conoscenza crea allora un duplice paradosso: da un lato, coloro che sono “biologicamente” più anziani sono ancora socialmente “giovani”, perché nelle professioni del terziario avanzato hanno accumulato risorse “soft” che ancora sarebbero in grado di spendere con profitto per la comunità. Dall’altro coloro che sono biologicamente più giovani rischiano di cadere nell’anzianità sociale da un momento all’altro.
Ecco che allora “prendersi cura” dell’anziano non può più essere, nella società di oggi, una pratica o un’attenzione che nasce dalla celebrazione e dalla sottolineatura di quella figura che fino a poco tempo fa chiamavamo, con un po’ di retorica buonista e politically correct, l’anziano “attivo”. Allo stesso tempo, mi pare si debba anche impostare il problema andando al di là della semplice constatazione, pur importante e condivisibile, che il cosiddetto “anziano” sia portatore di una esperienza che possiede valore formativo per le giovani generazioni. Anzi, da questo punto di vista, l’ecologia sociale in cui cresce un nativo digitale è talmente mutata rispetto a quella dei suoi “nonni” che, per qualcuno, siamo di fronte a una autentica frattura. In termini non solo sociali, ma più radicalmente cognitivi e antropologici, tra le generazioni. Ora una frattura di queste proporzioni sarebbe tale da compromettere e rendere vano persino ogni tentativo di comunicazione tra, ad esempio, anziani e adolescenti di oggi. E’, questa, la provocatoria tesi enunciata in un recente pamphlet dal filosofo-epistemologo Michel Serres secondo cui ogni trasmissione rischia di venir meno proprio perché verrebbero meno gli stessi presupposti sociali e comunicativi di ogni trasmissione. «Senza che ce ne accorgessimo, in un breve intervallo di tempo […] è nato un nuovo essere umano. Lui o lei non hanno più lo stesso corpo, la stessa speranza di vita, non comunicano più allo stesso modo, non percepiscono più lo stesso mondo, non vivono più nella stessa natura, non abitano più lo stesso spazio (14-15). Rarissime nella storia, queste trasformazioni che chiamo “ominescenti” producono, nel bel mezzo dei nostri tempi e dei raggruppamenti umani, una cesura così profonda ed evidente che solo pochi sguardi ne hanno saputo misurare l’ampiezza, paragonabile a quelle visibili nel neolitico, all’inizio dell’era cristiana, alla fine del Medioevo e nel Rinascimento (17-18).
Forse però, in base a quanto detto sopra, ciò che paradossalmente avvicina i due estremi generazionali è un destino comune. E su questo varrebbe la pena iniziare a impostare un ragionamento e una prassi. L’immaginario e la prassi della generatività hanno in proposito molto da dire, soprattutto mediante il riferimento a un modello societario altro, che non produce burn-out perché non ha con le risorse – sociali, umane, ambientali – un rapporto basato sullo sfruttamento e sull’esaustione. Si tratta anche di una prospettiva che su questo principio può consentire una ricomposizione alternativa dell’unità biografica di ciascuna persona: non più cioè avendo in mente il modello linearizzante moderno formazione-produzione-pensionamento, ma che la riorganizzi prendendo come positivo il lavoro decostruttivo che il mutamento sociale recente ha esercitato rispetto ai confini rendendone visibilissimi i presupposti e gli impliciti economicisti e produttivisti.
La cosa più urgente da fare, tuttavia, è proprio il tentativo di scongiurare il rischio di quella frattura evocata da Michel Serres, e proprio su tale crinale appare decisivo il contributo dell’Associazione Nestore presa in esame. Questo lo si può fare agendo proprio sui presupposti comunicativi della relazione tra più anziani e più giovani. E’ vero che le nuove tecnologie aprono una nuova ecologia sociale, ma è anche vero che in questa ecologia le tecnologie rendono più accessibile e diretto un “re-entry” di quello che il sistema progressivamente esclude da sé e dalla sua identità. E l’anziano, per come la sua identità si è venuta costruendo nel corso del tempo, è in controluce la sintesi di tutto ciò che le società tardo-moderne hanno “lasciato fuori”. Quanto al discorso squisitamente tecnico, si tratta poi di tecnologie più friendly di quelle che sorsero agli albori della società dell’informazione e l’anziano di oggi dispone, come dicevamo, di risorse cognitive e soft che lo rendono più permeabile all’apprendimento al nuovo di quanto fossero gli anziani di qualche decade fa. Crediamo infine che il sapere dell’anziano non sia solo quantitativamente superiore a quello dei giovani o tecnologicamente inferiore. Non si deve, insomma, misurare quantitativamente. Come già Erickson, padre della generatività, aveva sottolineato, il sapere di chi si trova avanti con gli anni è qualitativamente diverso, perché gode di quella capacità totalizzante e sintetica che sono le prerogative del senso. Un tempo la si sarebbe chiamata saggezza. E di fronte al senso e alla sua ricerca, di fronte alla necessità della sua trasmissione, non esistono anacronismi, non esistono fratture.
Fabio Introini