Le immagini e le voci che arrivano da Kabul scavano in profondità nell’immaginario collettivo. Il fallimento è drammatico perché è come se a cadere fosse stata una facciata che si pensava solida e che invece era di cartapesta. Agli occhi dei tanti che nutrono del risentimento nei confronti dell’Occidente questa vicenda dice che la lotta sanguinaria contro gli «infedeli» può essere vinta. Con il prevedibile effetto di rinfocolare la vasta galassia dei gruppi terroristici.
Per le forze moderate — nei Paesi musulmani, e più in generale nelle aree del mondo dove si cerca di superare miseria e arbitrio — la débâcle afghana rischia di compromettere ogni prospettiva. Anche perché chi si fiderà più delle promesse degli occidentali? Per alcuni sarà l’occasione per cercare altrove nuovi punti di riferimento. Ma anche per noi occidentali l’impatto è potente. La crisi afghana, infatti, mette in discussione la fiducia nei confronti delle élites che avrebbero dovuto realizzare le promesse fatte vent’anni fa. Al di là dei gravissimi errori di quest’ultima fase, l’opinione pubblica scopre che, invece di concentrarsi sugli scopi dichiarati, la missione si è persa tra lo scarso coordinamento e gli affari (sconfinanti nella corruzione) che ha generato. Sono stati spesi miliardi con risultati disastrosi. Chi ne risponderà? E chi avrà ancora la faccia di chiedere al contribuente di sostenere altre operazioni internazionali?
Ma soprattutto, con Kabul cade definitivamente l’idea che il pianeta possa essere unificato attorno ad alcuni valori e modi di vita comuni. Al contrario, quello che si vede è un mondo a pezzi, in preda a pulsioni ingovernabili e irrimediabilmente polarizzato: come ricomporre l’ipermodernità della fluidità di genere con gli arcaismi della sottomissione femminile? Stesso pianeta, realtà sideralmente lontane.
Insomma, la crisi afghana rafforza ancora di più l’idea che viviamo in un mondo infido e lacerato. Un mondo in cui la costruzione di nuovi muri sembra essere diventata l’attività preferita di molti governi, in ogni continente. Un mondo completamente diverso, forse addirittura opposto, rispetto a quello raccontato dalla «globalizzazione» rampante degli anni 90. Tanto per i Paesi poveri, quanto per le democrazie occidentali, a Kabul muore la speranza che un avvenire desiderabile sia possibile. Oggi è molto più difficile guardare avanti. La storia ci insegna che la mancanza di speranza, quando sconfina nella disperazione, è un serbatoio di violenza. Proprio per questo, occorre reagire.
La vicenda afghana — ultima di tanti segnali che il mondo entropico che abbiamo costruito ci lancia ormai da diversi anni — va trasformata nell’occasione per superare quella sorta di fantasia adolescenziale in cui siamo finiti per effetto dell’ebbrezza prodotta dalla caduta del muro di Berlino. Prendendo finalmente atto dei problemi che il salto storico realizzato alla fine del ’900 ci lascia in eredità. Nulla è facile e tutto deve essere guadagnato, centimetro per centimetro. La libertà, la democrazia, il mercato, la scienza, non sono evidenze che il resto del mondo può e deve semplicemente recepire. Sono un impasto complesso di elementi, non privi di contraddizioni irrisolte, che l’Occidente ha faticosamente conquistato nel corso di secoli.
Le altre potenze del mondo, a cominciare dalla Cina e dalla Russia — affiancate dall’ambiziosa Turchia di Erdogan — sono già pronte a occupare il vuoto lasciato dalla nostra maldestra ritirata. Non sarà facile per l’Occidente recuperare il terreno perduto.
Del pensiero dell’esportazione della democrazia — che si è rivelato per quello che era, e cioè un’ipocrisia — occorre salvare il nocciolo. Se abbiamo qualcosa da dire e da dare al mondo lo dobbiamo prima di tutto vivere noi occidentali. Il primo modo di esportare la democrazia è quello di risanarla ogni giorno, combattendo ingiustizie e disuguaglianze crescenti; di risolvere le sue debolezze, migliorando l’efficacia dei nostri governi; di superare le spinte che ci dividono, rafforzando i processi di integrazione (Europa) e di alleanza (Nato). Sul piano internazionale, la democrazia si difende e si afferma diventando propulsori instancabili, e mai ingenui, del metodo del dialogo come unica strada che, per quanto impervia, è necessaria per trovare le soluzioni alle questioni che legano insieme tutte le comunità politiche del pianeta (dalle migrazioni al cambiamento climatico).
È forse l’arte del dia-logos — come incessante tentativo di cercare il terreno comune tra posizioni apparentemente inconciliabili — ciò che dobbiamo prima di tutto esportare, imparandone noi stessi la difficile disciplina. E come non capire che la democrazia — e più in generale i valori che ci stanno a cuore — si «esporta» non con le armi ma attraverso la cooperazione? Se abbiamo qualche cosa da «esportare» è proprio l’idea che sviluppo umano, economico sociale, istituzionale procedono l’uno in relazione all’altro. Ma questo teorema va dimostrato nei fatti. Col dolore negli occhi e nel cuore, ricominciamo col riconoscere dove abbiamo fallito rispetto a quello che, come Occidente, volevamo essere. Dopo Kabul, nella nuova condizione della «globalità delle emergenze infinite» è la nostra strategia di come stare al mondo che va ripensata, provando a riaprire un varco a una speranza di futuro che, in questo momento, sembra davvero impossibile rianimare. Senza questa capacità di proiezione, forse davvero l’Occidente rischia di avviarsi a un destino di irrilevanza.