Stefano Laffi rappresenta la persona ideale con cui confrontarci sul tema dell’educazione, proprio perché il suo percorso di studio e di vita unisce una fortissima anima di ricerca accademica e teorica e una tensione più operativa che va dalla formazione alla valutazione, allo sviluppo di progettualità attraverso Codici Ricerche di cui è tra i fondatori. Abbiamo voluto chiamare questo incontro “Imparare a disimparare”, ispirandoci all’omonimo articolo di Stefano (https://www.codiciricerche.it/it/codici404/imparare-a-disimparare/), in cui mette in gioco in maniera molto lucida, onesta e vissuta il ruolo dell’adulto e dell’educatore oggi. Si chiede: “Come faccio io, che sono cresciuto in un mondo che non c’è più (perché ho trovato lavoro sulle Pagine Gialle e mi sono formato in un’Università creata su tutt’altro ordinamento), ad avere non tanto autorità ma autorevolezza rispetto alle nuove generazioni? Come faccio a educare, accompagnare attraverso un percorso di vita una persona se non conosco il contesto in cui questa si muoverà? E quindi, come faccio a essere autorevole o carismatico rispetto a questo soggetto? E la domanda che io ho un po’ letto tra le righe del tuo articolo, Stefano, e che ti rivolgo subito, è: “Cosa vuol dire educare oggi”?
Intanto grazie a voi per l’invito. Per rispondere a ciò che chiedi è importante che specifichi innanzi tutto il mio punto di vista. Io sono un sociologo e, quindi, da sociologo ho una prospettiva particolare rispetto alla domanda che mi hai posto. Per me quella domanda ha bisogno di essere situata nello spazio e nel tempo. Io credo che educare a Milano sia diverso che educare a Napoli e sia diverso che educare a Marrakech. Credo che “educare oggi” sia diverso da “educare ieri”, ma qui “ieri” rischia di diventare 2019 rispetto a 2020. Sto parlando di un’educazione che è situata nello spazio e nel tempo, il che, già di per sé, “sbriciola i manuali” perché vuol dire che l’abitudine che abbiamo di fondarci su testi scritti per acquisire le definizioni e le chiavi di lettura evidentemente vacilla. È un’abitudine che è destinata a essere evaporata dal fatto che il tempo sollecita molto e mette in tensione le definizioni canoniche. Quindi, l’ultima cosa che farò, è tornare alla Treccani.
La seconda cosa è che io sono un “maschio”. Io non ho curato nessuno, non ho fatto nascere nessuno e non ho nutrito nessuno oralmente. Poi, certo, ho dato il latte, ho cambiato i pannolini ai miei figli e tutte le cose che dovevo fare le ho
fatte! Però devo essere anche molto onesto: la dimensione della cura io radicalmente non la conosco. E quindi quando tu mi chiedi cosa vuol dire educare devo tornare alla definizione che sento come più istintiva, a maggior ragione adesso, che è questa: per me educare è invitare alla vita, convocare alla vita e all’esperienza di vita. Sostanzialmente non posso che vedere l’educazione non tanto come un’attività fra l’educatore e l’educando o anche reciprocamente tra educatore e educando (come sappiamo e si dice da un po’) ma come una relazione a tre: ci sono io, c’è lui/lei e c’è il mondo. Il mio mestiere non è solo stabilire una relazione con lui/lei, ma invitare lui/lei nel mondo. Questo per me è educare. È convocare nella vita quel bambino, ragazzo, persona che ho di fronte e quindi è sempre comunque un rapporto triangolare. Il mestiere dell’educatore non è tanto e non è solo “comprendere, ascoltare l’altro” (quanto si è sempre detto), ma è quello di “allestire la realtà” cioè allestire campi di esperienze, contesti che reggano quell’invito. Quello che noi adulti abbiamo fatto negli ultimi mesi e nei mesi del lockdown, è esattamente il contrario! Abbiamo chiuso la scuola ai ragazzi e gli abbiamo detto: “State chiusi in casa”. Abbiamo poi riaperto i bar, le fabbriche, le aziende, ma non le scuole. E i focolai non erano e non sono lì; la letteratura ci dice che non è nella scuola che si diffonde il virus! Lo sapevamo benissimo, eppure abbiamo aperto tutto “il resto” ma non la scuola. Credo che allestire la realtà sia sempre più il compito di chi educa, di chi, quindi, convoca fuori nel mondo, nella vita attiva, i ragazzi e ragazze, i bambini e le bambine.
Mi piace molto l’immagine dell’allestimento. Come si fa ad allestire un contesto per una persona con cui è difficilissimo trovare un terreno comune di dialogo? Leggendo il tuo articolo mi è venuto in mente uno scritto di Pasolini del 1965, in cui lui riflette sull’impossibilità di parlare con un ragazzino immaginario che all’epoca aveva 8 anni, proprio perché appunto le cose e gli oggetti che ci circondano, prima ancora che i sentimenti e i valori, sono figli di un mondo che non c’è più, che prima era artigianale, poi è diventato industriale e ora digitale. Come si fa a essere attuali rispetto all’allestimento del contesto, nel quale si possa poi giocare un confronto il più possibile onesto e franco?
Cosa vuol dire allestire la realtà? Con “allestire la realtà” si sottintende il fatto che ci sia uno spazio pubblico aperto e, quindi, un fuori (e qui insisto nel contrasto con il dentro di questi mesi che non ha fatto altro che amplificare le disuguaglianze che c’erano già prima), perché la possibilità di cittadinanza, di uguaglianza e di riscatto sociale dalle condizioni di origine esiste solo fuori!
Dentro ci sono le case in cui sei nato e quello in cui sei nato ovviamente non sei “tu”, è quello che ti ha preceduto. La partita quindi si gioca da lì in poi, finché sei imprigionato lì dentro con il tuo cognome e la tua casa, sei condannato a essere più ricco o più povero, più italiano o più straniero. Dobbiamo allestire la realtà perché solo nel fuori, nello spazio pubblico, si offre la possibilità di rimescolare le origini che altrimenti rischiano di condannare qualcuno e agevolare qualcun altro e quindi inevitabilmente di essere inique rispetto alla partita che i ragazzi si giocano, che è con la loro vita, non con la vita che li ha preceduti. Insisto su questo perché l’Italia è il paese in cui la disuguaglianza si trasmette di più di padre in figlio. Abbiamo dati che dimostrano che figli di imprenditori diventeranno imprenditori e figli di operai diventeranno operai. Quando chiedi ai ragazzi: “perché hai scelto questa scuola e non un’altra? Perché hai scelto di andare a lavorare anziché a studiare?”, i ragazzi ti rispondono: “No no, l’ho scelto io, non sono stato condizionato!”. Ma poi vai a studiare le correlazioni tra quello che il ragazzo ha detto e quello che era l’origine dei genitori e scopri che c’è una relazione diretta; come dire, il condizionamento di prospettive “ti passa dentro” se non c’è uno spazio pubblico che rimescola le carte. Per cui dobbiamo allestire dei fuori che ricombinino le opportunità, altrimenti per eredità non potrai che essere figlio di imprenditore, figlio di operaio, figlio di immigrato… e via di questo passo. Come si fa ad allestire un esterno aperto alle opportunità? Credo che da una parte questo sia il mestiere degli educatori, degli animatori, di quanti sanno fare questo tipo di lavoro. Vuol dire mettere in scena situazioni in cui la partita è aperta, le scommesse sono paritetiche. C’è la possibilità di sbagliare e la possibilità di riscatto; quello che mi ritrovo a fare non dipende dalla mia situazione di partenza, posso apprendere dagli errori. È uno spazio che dev’essere “non-saturo”, io lo definisco così. Cos’è uno spazio saturo? È uno spazio dove tutto è già definito e non puoi che fare quello che ti viene chiesto di fare. Faccio un esempio: davanti a casa mia c’è una strada con macchine che vanno avanti e indietro. Quello è uno spazio saturo. Quando esco posso solo prendere la macchina per andare su e giù o aspettare il verde al semaforo. Quella cosa lì non mi consente di essere né adolescente, né intelligente, né altro, posso solo eseguire dei compiti. Ma se quella strada la domenica mattina la chiudono e diventa uno spazio vuoto, libero, dove si possono fare feste di vicinato, Skatepark, Streetball, e qualunque altra cosa io voglia, quello spazio diventa non-saturo. Lì io sono convocato: se ho 15 anni proietto il mio desiderio lì fuori; se vedo una strada dove passano le macchine non proietto niente! Quindi dobbiamo de-saturare gli spazi, abbassare il tasso di intensità prescrittiva dei luoghi che esistono e convocare desideri, possibilità, abilità, intuizioni, che vengano compresi da tutti, anche, ovviamente, dai ragazzi.
Lo spazio pubblico è disseminato di cartelli, di segnaletica che annuncia divieti, ne abbiamo riempito lo spazio! Pensate ai giardini e ai parchi; sappiamo quante cose non si possono fare, giusto? Non si può giocare a pallone, non si può far questo, quest’altro… immaginiamo una segnaletica al contrario, che indichi tutto quello che si può fare. Immaginiamo non cartelli di divieto ma cartelli di invito. Un ragazzo che sarà diverso da me potrà sentirsi ingaggiato, proiettarsi via, aver voglia di uscire nel momento in cui avrà davanti uno spazio non saturo, non già codificato che consente di esercitare desiderio e di stare insieme agli altri.
E quindi dici che il recupero dell’autorevolezza e del carisma dell’educatore è poi una conseguenza della concessione di questo spazio di sperimentazione per il ragazzo e per l’adolescente? Lo vedi lì il recupero del dialogo? Nel creare una fiducia attraverso la possibilità di sbagliare?
La famiglia, la scuola, anche il Parlamento, tutte le grandi istituzioni, sono basate sul fatto che io (ragazzo) dia retta a mio padre, al mio insegnante ecc. perché lui è nato prima, ha fatto una certa esperienza e quindi conosce di più e ha maturato più esperienza rispetto a quella stessa cosa che incontrerò io che sono più piccolo. La sua antecedenza temporale gli dà un vantaggio di conoscenza, comprensione e strumenti che io acquisisco nel momento in cui lo ascolto, gli do retta come figlio, prendo appunti a scuola, lo seguo all’università, e così via. Tale principio si basa su una continuità temporale che quando viene a mancare comporta una frattura nel sistema; se il ragazzo si trova di fronte un adulto con un’esperienza di vita che non c’entra niente con quello che farà lui, il principio di autorità e autorevolezza basato sull’antecedenza temporale automaticamente crolla.
Allora, qual è la diversa operazione che immagino? Su questa non credo che saremo tutti d’accordo perché è un po’ forte. Dove sta per me la diversità? Io (educatore), anziché raccontargli la vita che lo attende, anziché indicargli la strada, cioè esercitare quel tipo di guida e autorità, devo allestire tante strade; il mio mestiere diventa curare il fatto che la realtà sia praticabile e sufficientemente aperta da far sì che ciascuno trovi la sua strada. Io, quindi, lavoro molto di più nelle retrovie che in presa diretta: cerco di mettermi d’accordo con le istituzioni, lavoro con il municipio, capisco come funziona la burocrazia dei permessi ecc… Questo per me è allestire la realtà! Poi ovviamente creo tutte le situazioni organizzative, metto insieme le persone, allestisco contesti che siano gratificanti anche per chi partecipa (quindi faccio in modo che ci siano momenti conviviali, per esempio, perché so che la convivialità a 15 anni è fondamentale per star bene, perché a quell’età il gruppo conta più di quello che fai). Solamente dopo, quando beviamo l’aranciata o la birra insieme, posso dirgli: “Ma sai qui cosa abbiamo fatto dieci anni fa? Ma sai questo posto da dove viene?”. E allora gliela racconto, posso anche restituirgli un elemento di valore, di tradizione, di sforzo, ma senza anteporlo e senza chiedere al ragazzo di “inginocchiarsi”. Costruisco campi aperti, allestisco spazi aperti ed è proprio in quegli spazi di relazione che si crea, che mi gioco una consegna che andrà in tante direzioni, ma non necessariamente seguirà la stessa strada che ho tracciato io.
Io la vedo proprio come se la missione fosse quella di istituire degli spazi in cui poter dare sfogo all’intersoggettività, in cui far emergere la dimensione intersoggettiva della vita proprio per creare un ventaglio di opportunità più ampie in cui esercitare la propria libertà.
Quando parliamo di bambini questa cosa è molto interessante ma anche molto facile. Abbiamo un’ampia letteratura che tratta del punto di vista dei bambini rispetto allo spazio, a come una volta interpellati, la prospettiva che loro hanno sullo spazio esterno, per esempio i giardinetti, i quartieri, le piazze, sia completamente diversa. Per esempio i bambini amano nascondersi e quindi loro cercano uno spazio che consenta di nascondersi, che è il contrario di quello che gli adulti vogliono quando allestiscono uno spazio in cui bisognerebbe fare dei cespugli, delle salite e delle discese. Il lavoro di Tonucci, che è una sorta di decano delle città dei bambini, è esemplare a questo proposito; per esempio in una delle interviste in cui lui riporta il punto di vista dei bambini, a un certo punto un bambino dice: “Nelle aree gioco le panchine sono girate dal lato sbagliato, e sapete perché? Perché mio nonno non vuole vedere me, vuole vedere la gente e i lavori, e io non voglio essere guardato da lui, voglio poter giocare liberamente con i miei amici senza i suoi occhi puntati addosso!”. La sua idea di “area gioco ideale” con le panchine girate verso l’esterno (con i vecchietti che guardano fuori e i bambini in mezzo tranquillamente a giocare), è esattamente all’opposto delle prospettive che attualmente abbiamo sull’uso dello spazio pubblico. I giardinetti tipicamente milanesi, con le aree gioco in mezzo e le panchine attorno, sono fatte per consentire alle mamme e ai papà di controllare lo sviluppo senso motorio dei figli, degli uni rispetto agli altri a parità di stimolo e attrezzo. Quello non è lo spazio di gioco dei bambini, è uno spazio di monitoraggio degli adulti rispetto ai propri figli.
Colin Ward (teorico anarchico delle città dei bambini) nel libro “Il bambino e la città”, scritto negli anni ‘70, teorizzava che il gioco perfetto per i bambini fosse la sandbox, un mucchio di sabbia, la cosa più semplice del mondo, e non le cose che noi ci inventiamo perché lui possa fare quei movimenti che vogliamo fargli fare. Non si tratta solo di trovare i materiali o gli stimoli giusti, a volte è proprio una prospettiva diversa.
Se parliamo in particolare di adolescenti, invece, la questione si complica. Io credo che in questo caso la convocazione alla realtà sia fatta di due elementi, così precisiamo anche il ruolo degli educatori.
Il primo: ci dev’essere un elemento di sfida. La convocazione deve avere un elemento di scarto, di sfida, perché non credo che educare sia sinonimo di “rispecchiare”. Siamo un po’ troppo figli di una logica bisogno-soddisfazione del bisogno, che nella forma più bella è quella materna ma nella forma più vile è quella del mercato. Credo che educare, e in generale fare cultura, non sia solo rispondere a bisogni ma anche produrre scarti nelle risposte, in quello che si propone, nel sistema di opportunità rispetto a quei bisogni. Non si tratta solo di dire: “Volete fare lo Skatepark? Bene, vi facciamo lo Skatepark”. Ci può anche essere uno skatepark, ma devo mettere in mezzo qualcosa che non c’entra con quello che loro hanno richiesto. Ci dev’essere in mezzo anche un elemento di scarto che produce una forma di spiazzamento, qualcosa di diverso dalla pura logica stimolo-risposta e saturazione del bisogno.
Quando mi è capitato di lavorare nei centri giovani è risultata chiara questa dinamica. I ragazzi volevano sempre i concerti hip-hop; a un certo punto gli abbiamo fatto arrivare un violoncello: c’era un violoncello e c’era una serata per violoncello. Quello era l’elemento di scarto. Il mio compito è preservare un sistema ecologico che preveda la differenziazione della specie, altrimenti ricadiamo sulla monocultura del calcio e dell’hip-hop, sulle mode.
Da un lato, allora, serve avere da adulto e educatore la capacità di costruire elementi di sfida e non semplicemente rispondere a domanda con la saturazione. Dall’altro lato, che in parte c’entra con il primo, credo sia fondamentale produrre incontri.
In una ricerca che ho fatto di recente prima del Covid, lavorando con degli adolescenti, stavamo ragionando sulle loro fonti ispirative, cioè da cosa prendono spunto per modellarsi a qualcuno o qualcosa. A un certo punto quando ho cominciato a dire: “ma se digitate su Google…”, e loro giustamente mi hanno risposto: “Google? Ma chi lo usa Google? Noi usiamo YouTube!”. E ci siamo rimasti un bel po’ a riflettere su questa cosa, ma una cosa era chiara. Se digito su Google trovo delle cose da leggere; io, che sono un uomo del ‘900, leggo, ma loro che cosa cercano? Cercano qualcuno che gli racconti qualcosa; per imparare quella cosa lì vogliono che qualcuno gliela spieghi e questo qualcuno può essere anche un loro coetaneo che fa un tutorial. Questo vuol dire che, sostanzialmente, la trasmissione della cultura sarà affidata sempre di più a dei testimoni: abbiamo prodotto testimoni in grado di far girare i messaggi, i valori, gli esempi… quello che vogliamo è che abitino anche l’immaginario dei ragazzi e delle ragazze. La produzione di incontri è certamente una delle cose da fare come educatori, quindi, non tanto dire al ragazzo cosa deve fare, ma fargli incontrare qualcuno che incarna qualcosa di interessante per lui.
Come faccio a capire a livello politico quali sono quelle novità che possono alimentare uno spazio di libertà e di crescita e quelle che possono portare a un’involuzione? YouTube ad esempio, il fatto che sia stato abbattuto il confine della parola scritta e si ricorra sempre più al visivo chiaramente ha delle componenti stimolanti di crescita innovative ma ha anche delle criticità non da poco. Da educatore, devo pormi la domanda nel merito del terreno in cui vado a dialogare oppure, solo per il fatto che i ragazzi agiscono in quel contesto lì, devo calarmi in quel contesto specifico? Devo applicare qualche forma di discernimento oppure no?
Sicuramente questo è un tema. Sto facendo questo lavoro nelle scuole (licei e istituti tecnici) e, quando ne ho discusso con gli insegnanti, ho detto loro: “Per voi, questa, non è una notizia da poco perché, per esempio, uno dei corto circuiti di questa logica è che non tutto è testimoniabile. Oltre una certa soglia temporale o distanza spaziale, infatti, non esiste qualcuno che te lo possa raccontare perché l’ha vissuto”.
La seconda cosa è questa. L’incarnazione è molto bella, perché sostanzialmente è come se i ragazzi ti dicessero: “Io do retta a quelli che incarnano qualcosa, non ai parlatori, ma a quelli che raccontano ciò che hanno fatto e che hanno vissuto in prima persona”. Tuttavia, questo meccanismo mette un po’ in crisi gli insegnanti, perché, ad esempio, è come se matematica la dovesse insegnare un astronauta che la usa ogni giorno e non un insegnante di matematica che non usa ma insegna la materia; è come se l‘italiano lo dovessero insegnare gli scrittori e non un insegnante di lettere e via di questo passo. È interessante come sfida.
Se ci ragiono, c’è un limite oggettivo alla logica di una cultura solo testimoniata (e questi ragionamenti possono essere fatti anche con i ragazzi): il testimone è sempre e comunque un punto di vista parziale. Quando ho lavorato per Radio Popolare, facevo il volontario, sono stato dentro una serie di manifestazioni e facevo il corrispondente. Quando sei dentro una manifestazione tu vedi ciò che c’è attorno a te, ma ciò che c’è in testa o in fondo al corteo non lo puoi vedere. Se fai il testimone di quel corteo e ti basi su ciò che incarni, cioè quello che vedi, che senti e che ti dicono, anche cercando di stare il più possibile con le antenne alzate, tu non racconti che un pezzettino di quel corteo, che era anche tanto altro! E allora siamo sicuri che il testimone sia davvero l’unica chiave? Questo ragionamento che ho fatto con voi lo farei con i ragazzi, per cercare di relativizzare questo “primato del testimone” dicendo che, per fortuna, da un lato abbiamo ancora un partigiano che ci può raccontare qualcosa che ha vissuto in prima persona, ma dall’altro dobbiamo cercare di capire cosa vuol dire lavorare anche sulle altre fonti che ci consentono di aprirci a prospettive più ampie. Sappiamo bene ad esempio che la storia non è mai stata raccontata dai vinti, solo dai vincitori; c’è sempre il rischio, quindi, di trovare testimonianze solo di un certo tipo.
Ho un’ultima domanda da farti. Entrando più nel merito della comunità educante, hai qualche suggerimento sia più teorico sia operativo e pratico? è un tema che sta fiorendo in maniera abbastanza lampante, quindi ti chiedo un punto di vista d’eccellenza sulla comunità educante e su quello che tu conosci. L’educazione è sempre situata e tu hai una conoscenza molto puntuale del contesto di Milano, il tuo punto di vista è prezioso in questo senso.
In questi mesi mi è capitato di sentire elogiare il popolo italiano e i singoli contesti territoriali per come hanno obbedito alle prescrizioni della quarantena. C’era finalmente una comunità in cui tutti gli attori erano allineati e i ragazzi e i bambini facevano quello che era loro richiesto. Qualcuno ha intravisto in questo una sorta di modello e si sentiva dire: “Ahhh, magari fossimo sempre così!”. Ecco, per me quello era veramente agli antipodi della comunità educante. Da parte del mondo adulto c’è spesso questo problema: immaginare un’armonizzazione, un allineamento dei messaggi, in modo tale che ci sia la produzione di comportamenti attesi e univoci da parte dei ragazzi e dei giovani. Io credo prima di tutto che non ci possa essere comunità educante basata sulla paura; ho capito che la paura normalizza i comportamenti, crea un allineamento istantaneo perché la gente, per fare un esempio, ha terrore a uscire, a fare quella cosa, ma non può essere così! Non ci può essere una comunità educante (ammesso che sia corretto chiamarla educante e non disciplinante) basata sull’autoconservazione, cosa che in realtà la paura produce. Io credo, invece, che una comunità educante debba essere basata sull’evoluzione della specie, che implica un invito alla realtà, al campo aperto, all’essere ricettivi rispetto alle proposte dei ragazzi (che non sono quelle che noi abbiamo immaginato che siano), a quella componente di sfida, di apertura, di produzione di nuovo. Quindi, per venire alla tua domanda, io credo che per predisporre qualcosa, se penso alla vita dei ragazzi, a quello che avranno di fronte, dobbiamo prestare attenzione due grandi temi.
Uno è quello dell’incertezza. Già il 2019 ci aveva dato un bello scossone, il 2020 ce ne ha riservato uno nuovo e, di nuovo, siamo stati sottoposti a un continuo sbandamento rispetto agli schemi. Il modello cognitivo che sta nell’incertezza è diverso da quello che sta nella continuità temporale. Vi faccio degli esempi. La scuola è basata sul modello cognitivo della certezza: c’è un problema, c’è una soluzione. Hai preso insufficiente, vieni bocciato o prendi i debiti. Tutto nella scuola, nella vita quotidiana dove la mente dei ragazzi si allena, è basata su degli schemi molto lineari di causa-effetto, semplici e univoci. La realtà complessa però, non è così. E l’incertezza non è così. Quando ne parlo con gli insegnanti dico questo: “Credo che voi dobbiate preparare i ragazzi a problemi che hanno non una, ma due o zero soluzioni! Così i ragazzi stanno in quella condizione lì”. Questo è uno shock per i ragazzi, perché escono dalla scuola con l’idea maturata che se c’è un problema esiste sempre una soluzione e ce n’è sempre una sola. Mi è capitato di lavorare anche in contesti in connessione con l’arte e la cultura; spesso nasceva un confronto del tipo:
Ragazzo/a: “Sono in difficoltà perché non ho capito il messaggio di quel quadro, di quel brano… (e così via)”
Io: “Ma sei sicuro che ci fosse un messaggio?”
Ragazzo/a: “Come? Può non esserci?”
Io: “Beh, vediamo insieme quale potrebbe essere” Ragazzo/a: “Ma come non ce lo dice lei?”
Io: “No, può essere diverso per ciascuno di voi” Ragazzo/a: “Ma come, ce ne sono tanti?”
Ecco cosa vuol dire immaginare di stare in uno schema cognitivo plurale aperto in continua costruzione. Altra cosa che dico sempre agli insegnanti: “Immaginate di dare un problema ai ragazzi e a metà iniziate ad aggiungere informazioni.” Ma come? Beh, la realtà è questa! Noi viviamo dei problemi in cui le informazioni continuamente cambiano! Credo allora che stare nell’incertezza significhi allenare altre strategie cognitive rispetto all’esecuzione di compiti, alla capacità di eseguire come buoni soldatini. Vi faccio un altro esempio, la capacità di chiedere aiuto. La scuola è l’ultimo posto dove si impara a fare questa cosa, fondamentale nella vita soprattutto in una condizione di incertezza; perché il compagno di banco è quello da cui non devi copiare, l’insegnante è quella che ti ha dato il compito quindi non gli puoi chiedere aiuto, i tuoi genitori sono a casa, i tuoi amici “guai se li chiami”! Dobbiamo allenare i ragazzi a fare esattamente il contrario, a chiedere aiuto.
L’altro elemento è quello del cambiamento. Cosa vuol dire cambiamento? Credo che una realtà sia invitante per i ragazzi se è plasmabile da loro, se possono vivere l’esperienza di portela trasformare. Abbiamo bisogno di una generazione (loro ne hanno bisogno perché è più divertente la vita e noi ne abbiamo bisogno per il mondo in cui siamo) in cui siano i ragazzi, i giovani, i bambini, i portatori di cambiamento. Per essere portatore di cambiamento devi essere cresciuto e legittimato a vedere quello che non c’è, quindi ad avere una capacità di immaginazione rispetto alla realtà e non ratificandola ma vedendone la sua trasformazione. Essere abituati a vedere una trasformazione vuol dire che in tutti i dialoghi che io imbastisco con questi ragazzi non dico mai: “Guarda che bella quella casa, quell’albero ecc.”, ma li alleno a vedere quello che c’era prima, che ci potrebbe essere domani e a capire come sono cambiati i materiali, come la realtà è mutevole, come qualcuno possa essere in qualche modo attore del mondo che ci circonda. Allora è proprio un altro sguardo; tendenzialmente il nostro sguardo è didattico, è uno sguardo che ratifica la realtà. E la realtà più la spieghi, più diventa di cemento; più invece eserciti le capacità immaginative, più il ragazzo entra in dinamiche trasformative e dice: “Mah si potrebbe fare, spostare…” e così via. Allora essere educatori che guardano, abituando i ragazzi a smontare e divergere dal presente, è molto diverso dall’essere educatori che ti spiegano: ”Ecco, quello è il monumento a Garibaldi”.
Chiedo solo un’ultima specifica allora sul rapporto con la scuola. Effettivamente anche noi abbiamo iniziato a incontrarci e a discutere ed è emerso subito che il grande “assente” era la scuola. Poi qualcuno ha tirato fuori il contatto con il singolo insegnante illuminato e ci muoveremo in quella direzione ma in effetti a parte la singola collaborazione la scuola è stato l’unico assente dal tavolo. È possibile impostare una relazione sistematica che vada oltre il singolo docente e, in tal caso, come si può abilitare?
Io non ne ho esperienza, non ce l’ho fatta. Sono come voi, cioè ho trovato qualcuno con cui fare delle cose e ho maturato la netta convinzione che l’unica innovazione possibile sia a isole, partendo da punti nello spazio per poi costruire l’arcipelago. Mentre non credo in un’innovazione di sistema, che tagli trasversalmente la scuola e produca un cambiamento omogeneo, trasversale e allineato. Non c’è linea guida al mondo in grado di allineare! Non ce l’ha fatta neanche la buona scuola che era un tentativo di fare innovazione di sistema. Secondo me non funzionano neanche le linee guida e torno al punto di prima. Anche quello della scuola è un ecosistema fatto di soggetti che hanno abilità, vocazioni, curiosità diverse; ci sarà qualche luogo che è votato all’autoconservazione e qualche soggetto che spinge di più alla trasformazione: il segreto è andare dai secondi e non dai primi, se siamo interessati a realizzare tutte queste cose che ci stiamo dicendo.