Il nostro Paese vede ogni anno sempre più giovani emigrare, mossi dal desiderio di trovare un contesto nel quale poter esprimere pienamente se stessi, a fronte di una scarsa capacità di attrazione di talenti dall’estero.
L’Italia pare non essere il luogo adatto dove costruire un avvenire prospero. Prova ne sono i tassi di natalità ai minimi storici; il numero tristemente alto di neet e disoccupati under 35; la totale marginalità dei giovani all’interno dei processi decisionali nel settore pubblico e privato.
I giovani italiani in un Paese che rimane a galla soltanto grazie alle rendite e che non è in grado di fare sistema. Una pesante questione psico-sociale pronta a deflagrare.
Come fare per invertire questo trend? Come valorizzare queste energie preziose in un’ottica di rilancio? Cosa può offrire l’Italia a tutti questi giovani? E come mettere in dialogo le nuove generazioni con l’inestimabile patrimonio umano, comunitario, storico, artistico, culturale, sociale del nostro Paese?
La “tempesta” del COVID-19 si è abbattuta con forza sulle nostre vite richiedendo a tutti un forte senso di responsabilità e appartenenza a una sola comunità di destino. Nessuno può farcela da solo. Lo sappiamo: nel quadro globale, in un’Europa indebolita, il nostro Paese si trova in grande difficoltà perché paga i ritardi del passato. Per questo, terminata la pandemia, l’Italia dovrà essere capace di unire tutte le sue forze per realizzare un nuovo “miracolo economico” e, insieme, una grande rigenerazione sociale e culturale. Il fattore-tempo è decisivo: è fondamentale incominciare subito a definire quali obiettivi raggiungere, le soluzioni che desideriamo adottare, i processi di cambiamento che si ritengono importanti avviare.
“Italia, Paese per giovani” si inserisce nel ciclo di Conversazioni generative promosse da “La Prossima Generazione“, al fine di promuovere questi nuovi risvolti e possibilità d’inserimento lavorativo a giovani under 40 che invieranno al format le proprie idee, venendo poi seguiti step-by-step da un team di mentori che valorizzeranno le stesse e le competenze richieste per sviluppare, generare e mettere in circolo concretamente insieme ai partner il dimenticato “sogno nel cassetto”.
Nel webinar di febbraio (clicca qui per recuperare la diretta streaming sul canale YouTube de “La Prossima Generazione”), i panelisti presenti e guidati dallo psicologo junghiano e sociologo Stefano Carpani Giovanni Floris, giornalista, il quale ci parlerà del suo ultimo libro ”L’Alleanza. Noi e i nostri figli: dalla guerra tra i mondi al patto per crescere”; Andrea Rapaccini, Partner MBS Consulting e Presidente di MIH – Music Innovation Hub; Elena Giacomelli, Co-fondatrice “AssembraMenti” si confronteranno sulle certezze del dialogo intergenerazionale, concentrandosi in prima istanza su quelli che sono gli aspetti – più che manifesti – distruttivi per il recupero di un’etica e di una speranza lavorativa.
È l’Italia un Paese per giovani o no? Un eufemismo, una speranza, un’utopia? Come fare per invertire questo trend? Secondo Stefano Carpani, il disagio psichico è uno dei fattori che più concorre nell’instaurare quel ciclo di pigrizia e insicurezze che tendono a sopprimere la capacità iniziativa in un terreno poco fertile per coltivare oggi “il coraggio di osare“.
Giovanni Floris delucida la questione dell'”Italia, Paese con pochi giovani”, avendo delle conseguenze enormi sul fatto che sia o no adeguato ai giovani. La prima conseguenza è che i giovani che votano sono pochissimi, e quindi le forze politiche che si occupano degli interessi dei giovani non se ne fanno carico. Quale contributo possono dare le nuove generazioni? Forse dobbiamo partire da quello che sta succedendo: il contributo che ha dato la generazione dei quarantenni alla guida del Paese non è stato un granché. Pensando agli esiti del governo Renzi, agli esiti del governo Salvini e di Maio, agli esiti delle forze politiche nate e composte da molti giovani (come il M5S, la Lega, Italia Viva), questi non si sono fatti portavoce degli interessi dei più giovani, ma sono stati dei giovani votati dai più anziani per fare cose per anziani. Se si riflette sulla stravincita delle elezioni per M5S e Lega promettendo Quota 100, quindi promettendo risorse alla parte più anziana della popolazione, ci rendiamo conto che se anche sono più giovani, i politici vincono se fanno gli interessi dei più anziani. Il Paese si è sistemato in una sorta di bipartizione delle generazioni: abbiamo una generazione che è quella fino ai 35 anni, e una generazione dai 35 agli ultra centenari. Questa seconda è la generazione al potere, perché sono tanti e unici votanti, e sono persone che votano se stesse per fare gli interessi propri. Questo porta le risorse economiche del Paese a tendere tutto verso la seconda generazione di cui si parlava. I nonni si ritrovano i soldi della pensione, e sono loro a dover badare a figli e nipoti; distribuiscono queste risorse, e le distribuiscono pagando la bolletta, l’affitto, prendendoli in casa. Queste risorse non rimangono tutte agli anziani, non ci sono infatti in Italia degli anziani straricchi: abbiamo degli anziani che si fanno carico. Gli effetti? Economico in primis: gli anziani non riescono, pur avendo destinate per se stesse le risorse, a star bene in questo Paese e se ne vanno. In secondo luogo, la dipendenza economica dei giovani, che non hanno le risorse che lo Stato destina agli anziani. Ma i giovani vorrebbero che lo Stato destinasse loro più risorse, invece che ai genitori, o nonni? Rispondono di no – ed è appurato da un sondaggio di Nando Pagnoncelli per Ipsos – perché sanno che se questi soldi passassero per la famiglia, qualcosa arriva; se rimangono in mano allo Stato, non gli arriva nulla. Si passa quindi all’ultimo livello di analisi: quanto queste generazioni sono interessate alla politica? Quanto sarebbero in grado di cambiare la situazione prendendo la politica in mano? Nell’ultima parte del libro, Floris scrive di come la politica generi una repulsa (non distanza): i giovani non vogliono averci nulla a che fare, non si aspettano nulla dalla politica e non la conoscono. Sono portati a sposare le grandi battaglie planetarie, come l’ambiente, i diritti civili, ma sono restii a declinarli a livello di cultura politica dell’oggi. Si combatte per un pianeta migliore ma non si combatte per un Paese migliore.
Una fotografia perfetta, ma durissima. Le ultime generazioni hanno sogni individuali, quindi ognuno di loro ce la può fare; ognuno di loro può trovare la strada allargando la propria gamma di possibilità, andando all’estero ad esempio. Però il “fallimento del sogno collettivo” non è proprio presente in questa generazione: non manca quindi la dimensione della strategia individuale ma il pensare che possa essere possibile cambiare la condizione attraverso un’azione politica, collettiva. Vedersi almeno come lobby.
L’Italia però è anche un esempio positivo. Ci sono talenti validi. E quando vengono valorizzati e accompagnati da dei mentor che riescono a farli crescere, dando responsabilità d’azione, ecco che il Paese può cambiare.
Elena Giacomelli è una sociologa, PhD all’Università di Bologna, e lavora in giro per il mondo. Cos’è AssembraMenti, di cui è Co-founder? La questione generazionale è un tema complesso, che ha a che fare principalmente col tema delle diseguaglianze. La pandemia ha acuito diseguaglianze preesistenti, fra cui anche quella generazionale. AssembraMenti si occupa proprio di questa diseguaglianza: è un movimento per la parità intergenerazionale, nato da alcune riflessioni durante il primo lockdown, con l’intento di costruire una comune identità per la generazione under 35 e sensibilizzare l’opinione pubblica su queste tematiche. Perché è nato AssembraMenti, proprio adesso? Il momento del lockdown ha portato faccia a faccia questo tipo di diseguaglianza, perché se il peso sanitario della pandemia ricade soprattutto sugli anziani, quello economico è tutto sulle spalle dei più giovani. Gli anziani sono il pezzo di popolazione in assoluto meno toccato dalle crisi economiche. Possiede una ricchezza sbilanciata, in continuo aumento rispetto a quella dei più giovani, che continua a ridursi. AssembraMenti vorrebbe essere una presa di coscienza, un movimento di comunicazione. La dott.ssa Giacomelli ragiona molto sul punto della preparazione generazionale: non è quello il punto focale, quanto l’ambiente demotivante per le opportunità che sono presenti, a prescindere dalla proattività personale. Un ambiente che non prevede a priori l’emancipazione lavorativa non dipende dalla volontà o meno dei giovani, o dalle loro simpatie politiche. Chiedersi piuttosto dell’ecosistema lavorativo, invece che concentrarsi sulle capacità del giovane under 35. Pensare quindi alle opportunità: non se i giovani sono preparati, ma dove e come si possono preparare e mettere in pratica. AssembraMenti si vuole occupare di questa tematica, in ottica più ampia, inserendole nel contesto. Nel concreto? L’animo di AssembraMenti si divide in diverse facce. Una è quella dello scrivere articoli di informazioni, fact-checking, che pubblichiamo con delle collaborazioni. Con azioni di advocacy, creando network anche con “La Prossima Generazione“. Sviluppando una piattaforma, diventando il primo osservatorio italiano dei giovani sui giovani.
Andrea Rapaccini interviene parlando del suo Comitato della Rete Nazionale dei Beni Comuni. Cos’è questo comitato? A cosa serve? Serve a dare delle strade a questa discussione. I beni comuni sono un paradigma economicamente e socialmente di rilevanza. Si parla di beni e servizi che hanno a che fare con i diritti e i doveri fondamentali per l’uomo: salute, cultura, educazione, patrimonio naturale. Si torna a parlare di questa distinzione perché si è ancora abituati a ragionare in maniera dicotomica: da una parte lo Stato, e dall’altra parte il mercato. Tipicamente, se noi vediamo il confronto vivo fra queste due parti, si vede nella privatizzazione l’unica speranza per ovviare a problematiche burocratiche, strutturali, che ci affliggono da anni. Poi ci sono altre occasioni dove si comprende che la privatizzazione gode di speculazioni, estrattiva, e non generativa. Quindi ritorniamo, ri-statalizziamo. In mezzo a questi due modelli c’è tantissimo. C’è l’economia comunitaria: aziende, pubbliche o private, che hanno un modello che produce valore sociale, non solo economico. Si parla di un terzo settore avanzato, come le imprese sociali. Si parla dell’evoluzione del capitalismo, sotto gli occhi di tutti (finanza sostenibile e responsabile). Esiste un mondo finanziario, delle imprese, che incorpora la benefit corporation, che ha una proposizione sociale, uno scopo nel proprio statuto, nascendo con quell’obiettivo. Si crede quindi che il tema dei beni comuni sia il tema per una nuova economia, che non possono essere lasciati all’incuria di uno Stato, o di una amministrazione, spesso indebitata e che non ha le risorse per rigenerare, ma nello stesso tempo non possono neanche essere messi a disposizione di un privato in maniera esclusiva.
Tornando ai giovani, lì c’è un enorme spazio di innovazione. Giovanni Floris parlava di volontariato, servizio civile obbligatorio, pur di responsabilizzare l’attenzione generativamente orientata e non egocentrica. Andrea Rapaccini è d’accordo: con volontariato non si può soltanto intendere il classico volontariato del terzo settore tradizionale, ma intendere quello dove i giovani possono imparare a fare impresa, imparare a costruire iniziative imprenditoriali in cui si assumono la responsabilità, oltre che dare un contributo dal punto di vista civile. Il punto legato ai beni comuni è legato al tema della generatività di cui si parla. Un paradigma fortissimo, perché se si vanno a ripescare le quattro fasi (il desiderare, il mettere al mondo, il prendersi cura, il lasciarsi andare), che è praticamente quello che fanno i genitori quando mettono al mondo un neonato, c’è una similitudine socio-antropologica: gli italiani sono molto forti nel desiderare; sanno mettere al mondo iniziative; sanno prendersi cura, ma non sanno lasciare andare. Non si sa lasciarsi andare nemmeno come imprese. Imprenditori che non riescono a far sì che l’impresa diventi qualcosa che cammini da sola, che possa avere un futuro a prescindere da loro. Questo è strutturalmente contrario alle intuizione che culturalmente dimostriamo.
Sapevamo desiderare: questi giovani dove desiderano? La generazione Z ha un problema di desiderio. Dove riescono a desiderare quello che saranno? Non è la politica quel luogo, né il sistema economico così conosciuto. Andrea Rapaccini trova quel luogo nella società civile. Il terzo settore che vede i giovani con desiderio e volontà di cambiare, con impegno. Tra mercato e Stato, fra pubblico e privato c’è un grande spazio d’innovazione per i giovani, e lì vogliono trovare il rinnovamento di senso. Lì c’è qualcosa che “bolle in pentola” e che mediamente i nostri dirigenti politici non hanno capito in merito di potenzialità.
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