TEMPI STORICI E TEMPI PERCEPITI NEL LUNGO CAMMINO PER LA GIUSTIZIA DI GENERE

Venticinque anni fa la Conferenza mondiale di Pechino approvò la Piattaforma di azione per le donne che trasformò le politiche a livello nazionale e internazionale in praticamente tutti i Paesi del mondo con un impatto complessivo non su milioni, ma su miliardi di persone.

Nel 1995 a Pechino i movimenti di tutto il mondo [1] ottennero dai governi il riconoscimento che “i diritti delle donne sono diritti umani”. Le parole chiave di Pechino – “punto di vista di genere”, “empowerment”, “mainstreaming” – segnarono un punto di non ritorno e una pietra miliare nel processo di riconoscimento dei diritti delle donne a livello mondiale.

Nell’evoluzione del diritto internazionale dei diritti umani, Pechino nel 1995 segnò, allo stesso tempo, un punto di arrivo – delle rivendicazioni promosse a partire dalla Convenzione ONU del 1979 sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne [2] – e un punto di partenza – per la attuazione di strategie nazionali multisettoriali volte ad ingaggiare diversi ministeri, le istituzioni nazionali e locali, le organizzazioni internazionali e la società civile.

Nel 1995 avevo vent’anni ed ero, come tanti studenti di giurisprudenza della mia generazione, un’attivista per i diritti umani che, come quasi sempre capita nel passaggio intergenerazionale, sentiva un enorme tributo di gratitudine nei confronti delle conquiste ottenute grazie alle attiviste della generazione precedente ma non si riconosceva nei modi del femminismo del Sessantotto.

La mia è stata la prima generazione di attivisti per i diritti umani dopo la caduta del muro di Berlino. Per noi le grandi conferenze mondiali degli anni Novanta (oltre a Pechino sulle donne, Rio sull’ambiente nel 1992, Vienna sui diritti umani nel 1993, Copenaghen sullo sviluppo sociale nel 1995, il Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre e Genova nel 2001) segnarono un passaggio epocale.

Rifiutavamo il mondo binario ereditato dai 45 anni di guerra fredda con la sua contrapposizione strumentalizzata e sclerotizzante tra diritti civili e politici, da un lato, e diritti economici, sociali e culturali dall’altro.

A livello globale, gli anni Novanta sancirono, da una parte, il riconoscimento dell’indivisibilità e interdipendenza di tutti i diritti e le libertà fondamentali civili, culturali, economiche, politiche, sociali e ambientali. Dall’altra, segnarono il passaggio dalle lotte per il riconoscimento giuridico alla advocacy per policies settoriali di promozione e protezione.

Così come, nel lungo cammino per la promozione e protezione dei diritti umani, la fine del 1700 segnò il passaggio dal riconoscimento etico-filosofico a quello politico nelle Costituzioni nordamericane e francesi, e il 1948 segnò il passaggio dal diritto interno al diritto internazionale, i summit mondiali degli anni Novanta tirarono i diritti umani fuori dalle stanze dei politologi e dei filosofi del diritto e segnarono il passaggio alle rivendicazioni per la pianificazione e il monitoraggio di strategie di azione.

…INTANTO IN ITALIA

Per quanto riguarda l’Italia, a livello nazionale, da allora si sono andati mescolando vari fattori tra cui: l’arroganza culturale di due pesi e due misure, di pensare che le questioni di diritti umani riguardino “solo” i Paesi terzi e non una democrazia “avanzata” come la nostra.

Un sistema della conoscenza e della formazione [3], così come delle istituzioni e delle organizzazioni a settori e compartimenti stagni, a silos; la carenza di capacità necessarie ad adottare approcci di cambiamento sistemico – in grado, per esempio, di ottenere l’incardinamento delle politiche di eguaglianza di genere come diritti umani e non in termini di politiche per la famiglia o per la maternità.

Di questa carenza di approccio sistemico è l’emblema la mancanza ancora oggi, nel 2020, in Italia di una istituzione nazionale indipendente per i diritti umani [4].

A questi fattori, aggiungiamo la debolezza del Terzo Settore strangolato da cicli della fame e di dipendenza da progetti [5] e, di conseguenza, spesso incapace di monitorare le politiche e fare pressione per cambiarle, nonché di usare al massimo potenziale gli strumenti di advocacy e di “nudging”, di lobby buona, di pressione istituzionale e politica offerti dal diritto internazionale dei diritti umani [6].

Ma anche la scarsità della raccolta e uso strutturale di dati disaggregati.

L’incapacità delle politiche di diritti umani di ingaggiare il settore privato, i media e i singoli cittadini, cosa che invece si auspica riesca a fare l’Agenda 2030, con la sua visione di “sostenibilità sistemica” di cui l’eguaglianza di genere è parte integrante e fondamentale.

IL POTERE DEI DATI

Da quando ho letto a marzo “Invisibili” di Caroline Criado Perez [7], non riesco a non contare le donne in un panel, in un comitato direzionale, tra i firmatari di un appello, tra le autrici pubblicate in una collana, tra le artiste esposte in una mostra. Rimango ogni volta attonita nel constatarne ancora oggi in Italia la segregazione, in particolare nel mondo del lavoro e della formazione e, in tutti gli altri ambiti, l’assenza o – in maniera ugualmente scioccante – l’invisibilità.

Ogni volta che lo faccio notare, la reazione degli interlocutori varia dall’incredulità, all’imbarazzo, al fastidio, all’avversione stile “occhi al cielo/eccola di nuovo, la veterofemminista”.

Eppure, dal 2013, l’Istituto Europeo per l’Eguaglianza di Genere (EIGE) monitora progressi e recessioni dell’eguaglianza di genere nell’Unione Europea e nei singoli Paesi europei in sette aree chiave: lavoro, finanza, formazione, potere, tempo, salute e violenza (anche in base a indicatori che tengono conto delle diseguaglianze intersezionali).

Analizzando l’evoluzione diacronica dell’indice emerge un progresso della media europea lentissimo e irregolare, con Stati che retrocedono e altri che migliorano magari in un’area ma rimangono molto deludenti nelle altre.

Dopo essere stata all’avanguardia nell’emancipazione femminile negli anni ’70, nelle decadi successive l’Italia non ha mantenuto il passo con l’evoluzione in altri Paesi ed è dunque partita molto in basso nel benchmark europeo [8] del 2010.

In base all’indice aggregato di eguaglianza di genere dell’EIGE, negli ultimi 10 anni, l’Italia è migliorata del 23,6%. Un risultato importante certo, ma, ad un occhio più attento che vuole approfondire, si scopre che è essenzialmente dovuto – oltre che all’incresciosamente bassa base di partenza – al salto in avanti in un’unica area (potere) su sette ed essenzialmente ad un unico cambiamento: la legge Golfo Mosca.

Una legge importante che ha imposto le quote di genere per i Consigli di Amministrazione delle società quotate in borsa, ottenendo su questo, in dieci anni di applicazione, buoni risultati, purtroppo però limitati alle società quotate senza né effetti trascinamento né a cascata significativi.

Dall’analisi di impatto dei primi dieci anni di applicazione infatti non emerge [9] alcun vero “effetto trascinamento” – né nelle società non quotate né sul numero di donne nel ruolo di amministratore delegato (appena l’8,4%) – e neppure alcun significativo “effetto a cascata” sul numero di donne manager o in ruoli apicali così come neppure sul divario retributivo tra uomini e donne [10].

Finalmente abbiamo i dati: è caduta la foglia di fico. Quantità sempre maggiori di dati ci restituiscono fotografie inconfutabili e urtanti, ma, oltre ai dati, è necessario andare a fondo delle cause e delle correlazioni.

L’uso dei dati farà la differenza solo se diventerà cambio di paradigma e porterà effetti sistemici.

Aumentare le quote rosa, senza politiche esplicite e sistemiche di “gender mainstreaming” [11] serve a poco. A questo si aggiunga che le prime analisi degli effetti della pandemia sulle donne sono allarmanti e fanno temere un salto indietro di decenni in tutte le aree, nessuna esclusa [12], ed è fondamentale che i piani di ripresa e resilienza adottino approcci sistemici di “gender mainstreaming”, incluso il “gender budgeting”.

25 NOVEMBRE E VIOLENZA SULLE DONNE

Il 25 novembre è – come ogni anno dal 1999, quando venne istituita – la giornata mondiale per l’eliminazione della violenza sulle donne.

Le giornate mondiali delle Nazioni Unite [13] sono un potente strumento di informazione, disseminazione e presa di posizione e questa in particolare un importante risultato di Pechino.

25 anni fa infatti i Capi di Stato e di Governo tornarono a casa da Pechino con l’impegno di agire per debellare la violenza sulle donne. Da allora, almeno 154 Paesi hanno criminalizzato la violenza sulle donne.

Da giovane giurista formata in una cultura preponderatamente giuspositivistica, come quella giuridica italiana, riponevo una fede incondizionata nel diritto come strumento principe di cambiamento sociale, nella capacità trasformativa delle norme giuridiche, come spinta per il cambiamento di paradigmi culturali: denuncia, “strategic litigation” e advocacy come cardini per cambiare il quadro legale che avrebbe poi portato al cambiamento culturale e a quello sociale.

Del “dopo Pechino” in Italia ricordo le campagne di advocacy per ottenere nel 1996 che la violenza sessuale venisse riconosciuta come reato contro la persona e non più, come era stato fino allora, come reato contro la morale e il buon costume. Venticinque anni dopo quella vittoria, i dati Istat mettono ancora a nudo che il 92,5% dei casi di violenza sessuale in Italia non viene denunciato.

Alla radice di questo fallimento ci sono tantissimi fattori e senza dubbio la mancanza di un approccio sistemico ad un amalgama di cause correlate tra cui: problemi di applicazione delle leggi, di formazione delle forze di polizia, di fiducia nelle istituzioni preposte, di dipendenza economica di tante donne – e su questo sono impressionanti in Italia i dati sulla disoccupazione femminile, in particolare al Sud, ma almeno altrettanto, e se ne parla molto meno, i dati sulla segregazione nelle varie tipologie di lavoro.

Andando ancora più a fondo, però, non è possibile non riconoscere l’intersezionalità di un groviglio di retaggi culturali e di norme sociali non scritte: un’enorme barriera culturale di tabù; di colpevolizzazione e vittimizzazione secondaria; di stereotipi impliciti e di condizionamenti inconsci; di decenni di ruolo deleterio delle tv commerciali e industria pubblicitaria di massa con una visione della donna pin-up, escort, oggetto sessuale [14]; di carenze profonde nell’empowerment delle bambine e delle ragazze oltre che delle donne.

Un groviglio di correlazioni che non può non sollevare nel 2020 in Italia questa domanda: cosa rende culturalmente e socialmente accettabile che il 92,5% di donne che hanno subito violenza non la possa denunciare?

Uso di proposito il verbo potere perché troppo spesso in questo Paese si carica sulle donne anche il fardello di non aver denunciato la violenza subita, come se la causa della mancata denuncia – che è solo una tappa sia chiaro nel percorso di sradicamento della violenza di genere, e non certo una panacea – fosse interna alla volontà delle donne e non una conseguenza di cause esterne.

LE RADICI PSICOLOGICHE DELLA DISUGUAGLIANZA

Nel saggio più potente che ho letto quest’anno, Chiara Volpato [15] analizza le radici psicologiche delle diseguaglianze.

Ad occuparsi di diseguaglianze sono stati finora soprattutto gli economisti [16], e il contributo della psicologia sociale apre frontiere originali e dirompenti.

Volpato analizza come le diseguaglianze vengono costruite, occultate, accettate, interpretate ed esamina i meccanismi di assoluzione, colpevolizzazione, colonizzazione e i comportamenti di dominanza e sottomissione con cui le diseguaglianze si perpetuano e si rafforzano.

Seppur non specifico sulle diseguaglianze di genere [17], tutto il saggio può essere letto con lenti di genere.

Alla radice delle diseguaglianze ci sono percezioni distorte che sistematicamente le sottostimano e processi di legittimazione, profondamente radicati in miti di fondazione e giustificazione, sia da parte del gruppo dominante sia da parte di chi le subisce.

Sia il gruppo dominante sia il gruppo dominato inoltre concorrono – spesso inconsciamente – al mantenimento delle diseguaglianze con meccanismi di psicologia sociale basati su tre fattori reciprocamente rinforzanti: legittimazione, stabilità e permeabilità [18].

L’ELEFANTE NELLA STANZA

Nel leggere i vari, significativi, contributi pervenuti in risposta alla chiamata di Flavia Barca, così come nella strategia proposta in 9 punti, mi è sembrato che, ancora una volta, ci sia il proverbiale “elefante nella stanza”, qualcosa di enorme, di cui tutti sanno, ma non vogliono o possono parlare: il mondo maschile.

Come era stato a Pechino 25 anni fa, come è stato nelle rivendicazioni politiche successive, ma la giustizia di genere oggi non può rimanere una questione delle donne, con le donne, per le donne, tra donne.

Mi sembra dunque che manchi una sfera di azione chiave per un cambiamento di paradigma culturale: da un lato, il contrasto sistematico, capillare, permanente della mascolinità tossica e, dall’altro, la promozione di nuovi modelli maschili, anche attraverso – ma non solo – la chiamata in causa e la partecipazione attiva del mondo maschile.

Il riconoscimento dell’importanza del coinvolgimento sistematico del mondo maschile, come parte della causa, e il correlato superamento dell’idea che possa essere un target esterno, neutro o addirittura – come talvolta all’inizio il movimento femminista aveva lasciato intendere – nemico della causa, oggi si sta consolidando – anche se ancora troppo lentamente, a mio modo di vedere – prova ne sia che finalmente anche le Nazioni Unite dal 2016 promuovono una campagna come He for she- The Global solidarity movement for gender equality.

MASCOLINITÀ TOSSICA

Per promuovere un cambiamento di paradigma culturale, però, questo non basta. Non si tratta solo del coinvolgimento attivo del mondo maschile, ma di promuovere, di forgiare, sistematicamente, opportunità e capacità di immaginazione sociale per entrambi i gruppi, maschile e femminile.

La psicologia sociale apre scenari di analisi sul rapporto tra gruppo dominante e gruppo dominato molto interessanti, in particolare sul concetto di “entitlement” – sentirsi in diritto – e sui meccanismi di creazione, rafforzamento e mantenimento di condizionamenti inconsci e stereotipi impliciti, che si formano nei primi anni di vita e, spesso, sono addirittura opposti agli atteggiamenti espliciti dell’età adulta (tipo “ma mio fratello ha dedicato più tempo alla cura dei figli della moglie” o “ma il mio migliore amico guadagna meno della moglie che ha la sua stessa laurea e specializzazione”).

Con il concetto di mascolinità tossica [19] si fa riferimento non soltanto ai comportamenti di machismo violento, sboccato, insultante o denigratorio che oggi è – o dovrebbe essere – sanzionato anche penalmente in qualunque ambito, ma a tutto quell’insieme di comportamenti e credenze subliminali che comprendono per i maschi il dover sopprimere le emozioni, il dover mascherare il disagio e la tristezza, il mantenere un’apparenza di stoicismo, di “virilità”, il non comportarsi da deboli, deferenti, accudenti o timorosi.

Le ripercussioni della mascolinità tossica sono ampie e profonde e si insinuano, tra gli altri, nella “finta parità” durante gli anni della scuola, nello sbilanciamento del carico familiare del lavoro di cura e nelle carriere delle donne strozzate a monte e a valle, nella segregazione tra maschi e femmine negli ambiti formativi e lavorativi, nella “cronica sotto autostima” delle donne [20].

Da madre impegnata ad offrire non soltanto a mia figlia le capacità di immaginazione sociale di un mondo più equo, ma anche a mio figlio le capacità per disubbidire al paradigma culturale dominante, a non conformarsi, a rigettare l’idea che ci sia un solo modo di essere uomini – nella sottocultura binaria dei “veri uomini” si è “fighter” o “loser”, “leader” or “follower”, maschi o effeminati/smascolinizzati – mi sono spesso scontrata con una barriera culturale che potrei riassumere con la considerazione che nel nostro Paese oggi ci sono – finalmente! – tanti modi di crescere una bambina, ma ancora troppo massicciamente un solo modo di crescere un maschio.

Se guardiamo alla letteratura per l’infanzia, per esempio, a partire dalla collana “Dalla parte delle bambine” pubblicata negli anni Settanta [21] (che i miei figli hanno letto nei primi anni duemila ripubblicata da Motta junior nell’albo Rosaconfetto e altre storie), alcune piccole case editrici hanno fatto negli ultimi decenni un lavoro straordinario, recentemente anche ben mappato nel catalogo “Leggere senza stereotipi” dalla Associazione Scosse, per proporre modelli di riferimento di “bambine e ragazze ribelli” [22] ma, forse, ancora troppo poco per proporre modelli maschili alternativi, gentili, solidali, collaborativi.

E come se al processo di decostruzione dei modelli tradizionali di genere mancassero i tasselli del mondo maschile e, di conseguenza, privassimo non solo i bambini ma anche le bambine di questa metà di immaginazione sociale.

La mascolinità tossica fa male alle donne, ma fa male anche agli uomini, non solo perché priva il mondo dei talenti di quelli non conformanti, ma perché rendi infelici anche tanti maschi tossici magari senza che ne sappiano riconoscere il perché [23].

Ho amato tantissimo la campagna contro la violenza domestica sulle donne Ring the bell, lanciata in India ormai più di dieci anni fa, proprio per il tipo di comportamento proposto a uomini e ragazzi, non da eroi, né da attivisti senza paura, né da condottieri coraggiosi ma da persone capaci di empatia e di un piccolo gesto di cura.

CAMBIAMENTO DI PARADIGMI CULTURALI E CAMBIAMENTO SOCIALE

Dove si annidano gli stereotipi impliciti e i condizionamenti inconsci che ci portano ad accettare culturalmente e socialmente in Italia dei numeri così abnormi di diseguaglianza di genere?

Cosa ci porta a essere condiscendenti?

A non indignarci? A non diventare ciascuno, nel proprio piccolo o grande spazio di azione, changemaker per l’eguaglianza di genere [24]?

Perché ci basta non essere attivamente sessisti? Cosa ci spinge a non essere esplicitamente anti-sessisti?

Quale ruolo gioca la cultura nell’abbattere norme sociali consolidate e profondamente radicate?

Vorrei un’Italia dove “gender audit” e una formazione obbligatoria sugli stereotipi impliciti e i condizionamenti inconsci in materia di genere sia richiesta per legge, non solo a insegnanti, educatori, giornalisti, magistrati, avvocati, medici ma anche nei Consigli di Amministrazione di qualunque organizzazione pubblica e privata.

Venticinque anni dopo Pechino, abbiamo imparato sulla nostra pelle l’imprescindibilità di approcci sistemici, capaci di accogliere la complessità e integrare lenti di genere in qualunque ambito di azione.

Il cambiamento giuridico, senza cambiamento culturale e sociale non porta al cambiamento di sistema.

Il quadro legislativo (e la sua applicazione!) è fondamentale per delimitare il campo e le regole di gioco, ma da solo non è sufficiente.

In un approccio sistemico, la cultura [25] ha un ruolo imprescindibile nel forgiare capacità di immaginazione sociale [26], così come nell’ispirare, sostenere, disseminare e consolidare il cambiamento sociale.

Solo la cultura con il suo soft power può svolgere il ruolo di promotore di alternative alla cultura dominante della mascolinità tossica e, allo stesso tempo, di addentellato permanentemente contro i rigurgiti o, peggio, le involuzioni che i cambiamenti di paradigma sempre comportano [27].

FINANZA, FONDAZIONI E ENTI FILANTROPICI

Le fondazioni e gli enti filantropici, con la loro autonomia, flessibilità, visione di investitori di lungo periodo, possono fare una enorme differenza nella promozione e protezione della eguaglianza di genere, a tutti i livelli, locale, nazionale, internazionale.

Non mi riferisco solo a progetti o programmi specifici dedicati alla promozione o protezione dei diritti delle donne né tanto meno solo alle fondazioni che scelgono i diritti delle donne [28] come propria missione, che purtroppo in Italia e in Europa sono ancora talmente poche che si contano sulle dita di una mano. Mi riferisco invece a qualunque fondazione, qualunque sia il suo ambito di azione, che può scegliere di integrare le lenti di genere (“gender mainstreaming”) nello svolgere le sue attività ordinarie: nella gestione dei patrimoni, nei finanziamenti filantropici, nei programmi culturali, ambientali, sociali che porta avanti.

L’Agenda 2030, con l’obiettivo 5 che promuove l’eguaglianza di genere e l’empowerment di donne e bambine come sfera fondamentale per lo sviluppo sostenibile (e non “solo” per i diritti umani), ha tutte le potenzialità per fare un salto in avanti nell’ingaggio di tutto il settore privato.

Non più solo i già credenti, ma tutte le aziende di ogni settore produttivo.

Per quanto riguarda le fondazioni ed enti filantropici, non quelle dedicate ai diritti delle donne, ma tutte le fondazioni in qualunque ambito – ambiente, cultura, povertà, disabilità, educazione etc – siano esse impegnate.

Il cambio di paradigma nelle fondazioni, così come nelle aziende e in qualunque organizzazione, avverrà solo quando l’integrazione della eguaglianza di genere avverrà anche all’interno, nella governance e nella leadership della propria organizzazione. L’evidenza dei dati finalmente mette in luce le ragioni per farlo. Non più perché è politicamente corretto o bello da far vedere, ma perché rafforza ed espande la visione, le capacità, i processi, l’impatto.

Le recenti, potenti iniziative di benchmarking per le società quotate come Equileap, lanciata nel 2016, e World Benchmarking Alliance [29], lanciata nel 2018, dimostrano come l’eguaglianza di genere sia un indicatore chiave di performance dell’azienda per un suo successo economico, offrendo la solidità della prova dei dati per poter convincere sempre più investitori a investire su imprese “gender balanced”.

In un mondo in cui la “mainstream finance”, così come il “mainstream risk capital” (di cui, sottolineiamolo, le donne ricevono meno del 2%) [30], sono ancora saldamente maschili, stiamo per assistere a un cambio generazionale potenzialmente rivoluzionario.

“Gender balanced” non interessa solo alla nicchia della finanza responsabile e impegnata – la finanza sociale e la finanza sostenibile – ma potenzialmente a tutta la “mainstream finance” per cui gli investimenti ESG [31] rappresentano una frontiera di business che da un paio d’anni sta prendendo sempre più piede.

Il crescente interesse per “Gender lens investing” come parte integrante della “S” in ESG e finalmente la disponibilità di dati e di strumenti di benchmarking stanno contribuendo ad un cambio di paradigma culturale.

Gli investimenti ESG, inizialmente accettati dalla “mainstream finance” in una posizione difensiva (un po’ decorazione e un po’ barriera per evitare rischi reputazionali) possono passare ad essere considerati una risposta di interesse ad una domanda reale e diretta, quella degli investitori millenials – nel prossimo decennio, destinatari del più grande trasferimento intergenerazionale di ricchezza nella storia della umanità [32] – che esigono cura non solo nel prodotto, ma anche nel come il prodotto è prodotto.

NUOVE GENERAZIONI E SOFT POWER DELLA CULTURA

Ancora una volta l’auspicio è che siano le nuove generazioni a trascinare il cambiamento culturale e conseguentemente sociale.

Il sostegno alla cultura, non certo solo come orpello o “edutainment” ma nel suo ruolo chiave di cantiere di immaginazione sociale e di addentellato per una società più democratica, più equa, più salubre [33], è urgente e prioritario, mai come in questo autunno 2020.

Arte e cultura sono fondamentali per elaborare i lutti, le violenze, le discriminazioni subite, per immaginare alternative al conformarsi alle norme sociali dominanti e mettere in discussione condizionamenti acquisiti, per consolidare e disseminare valori sociali di equità e giustizia.

Concludo con le parole di Kamala Harris di sabato 7 novembre 2020, nel suo primo discorso dopo la vittoria elettorale, quando ha detto che sentiva “di portare avanti il cammino fatto da altri, stando sulle spalle di tutte le persone delle generazioni precedenti che hanno lottato per l’eguaglianza di genere e che hanno pavimentato la strada perché oggi potesse esserci, per la prima volta nella storia, una donna e una persona di colore eletta Vicepresidente degli Stati Uniti”.

Il mio auspicio è che la Generazione equality dei giovani di oggi possa essere davvero capace di unire donne e uomini per l’ottenimento dell’eguaglianza di genere. A noi in posizioni con una piccola o grande sfera di potere, la responsabilità di dare il giusto riconoscimento alle loro istanze, anche aprendo alle nuove generazioni le stanze dei bottoni e, in particolare, la governance e la leadership delle nostre organizzazioni. Altro tabù e altro salto di paradigma culturale fondamentale per il nostro Paese: quello della transizione generazionale e della questione della giustizia intergenerazionale, intrinsecamente intersezionale con la questione della giustizia di genere. Everyone is a changemaker.

 

Carola Carazzone è Segretario Generale di Assifero – Associazione italiana delle fondazioni ed enti della filantropia istituzionale, membro dell’advisory board di Ariadne – European Funders for Social Change and Human Rights, del board di DAFNE – Donors and Foundations Networks in Europe e di ECFI – European Community Foundation Initiative.

Note e approfondimenti bibliografici

[1] Alla Conferenza dei governi a Pechino dal 4 al 15 settembre 1995 hanno partecipato 5.307 delegate e delegati ufficiali, e 3.824 rappresentanti delle ONG. Erano inoltre presenti 3.200 operatori dei media e 4.041 giornalisti provenienti da 124 Paesi. Di questi, 841 erano cinesi, 1.468 provenivano da 18 Paesi asiatici, 1.210 dall’Europa e dall’Australia, 268 dall’Africa, 134 dai Paesi del Medio Oriente e 829 dagli Stati Uniti e dal Canada. Contemporaneamente, al Forum delle ONG di Huairou partecipavano 31.000 donne, rappresentanti di più di 2.000 organizzazioni di 200 diversi Paesi.

Si veda il sito dedicato di AIDOS che aveva guidato la delegazione non governativa italiana a Pechino http://dirittiumani.donne.aidos.it/bibl_2_testi/d_impegni_pol_internaz/a_conf_mondiali_onu/b_conf_pechino/home_pechino.html

[2] In merito alla attuazione a livello nazionale e internazionale della Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, il principale testo giuridicamente vincolante sui diritti delle donne, si veda https://www.ohchr.org/en/hrbodies/cedaw/pages/cedawindex.aspx

[3] Come sempre, poi, l’Italia offre al mondo delle eccellenze straordinarie, emblematica l’evoluzione dello studio e ricerca su diritti umani dell’Università di Padova. Dall’iniziativa pilota e visionaria nel 1982 di Antonio Papisca, allora Preside della Facoltà di Scienze Politiche, del “Centro di studi e di formazione sui diritti e le libertà fondamentali” successivamente denominato “Centro di studi e di formazione sui diritti della persona e dei popoli”, nel 2001 il passaggio a Centro interdipartimentale e nel 2013 Centro di Ateneo per i Diritti Umani con una visione non solo interdisciplinare ma sistemica. https://unipd-centrodirittiumani.it/it/attivita/Il-Centro-Diritti-Umani-una-visione-di-insieme/1184

[4] Come esito della Conferenza mondiale sui diritti umani del 1993, le Nazioni Unite richiesero (risoluzione ONU n.48/134) che: “Gli stati membri si impegnino ad istituire organismi nazionali, autorevoli, indipendenti per la promozione e la protezione dei diritti umani fondamentali”. L’Italia, con una pletora di organi in materia tutti statali, ma nessun organismo nazionale indipendente, rimane ancora oggi fanalino di coda su questo, anche a livello europeo, dove solo Malta, Estonia, Repubblica Ceca e Romania, oltre al nostro Paese, risultano inadempienti. Dal 2002 una coalizione di organizzazioni della società civile italiana ne promuove l’istituzione. L’Italia è stata richiamata dall’ONU costantemente dal 2008 in merito. Nel corso dell’ultima Revisione periodica universale dell’ONU (marzo 2020), l’Italia ha ricevuto 45 raccomandazioni relative alla creazione di un’istituzione nazionale per la tutela dei diritti umani. Per quanto riguarda le raccomandazioni in merito all’Italia da parte della Unione Europea si veda l’ultimo rapporto della Agenzia dei diritti fondamentali della UE, FRA Fundamental Rigths Agency https://fra.europa.eu/en/publication/2020/strong-effective-nhris#TabPubOverview0. Una decina di proposte di legge si sono succedute negli ultimi quindici anni. Il 29 ottobre 2020, le Commissioni parlamentari Affari Costituzionali, Presidenza del Consiglio e Interni hanno adottato un testo unificato delle proposte a prima firma Scagliusi, Quartapelle e Brescia.

[5] Sui muri ideologici che impediscono ai donatori di sostenere i movimenti e le organizzazioni del terzo settore se non con meccanismi ripetitivi quali i cicli di progetto e sulla resistenza ideologica a sostenere i costi di struttura, digitalizzazione, fundrasing, comunicazione, advocacy, lavoro di convening e di rete, mobilizzazione, network e presa di posizione, si può ascoltare https://www.ted.com/talks/carola_carazzone_the_third_sector_has_to_change_the_world?language=it  o leggere la call to action alle fondazioni e enti filantropici lanciata nel 2018, http://www.ilgiornaledellefondazioni.com/content/due-miti-da-sfatare-evitare-l%E2%80%99agonia-progetti-del-terzo-settore, e tuttora in corso; si veda da ultimo Carola Carazzone e Alessandro Valera, “I costi necessari del Terzo Settore”, Corriere della Sera, 3 novembre 2020.

[6] La rivoluzione ICTs, a partire dagli anni duemila, ha abilitato nuove frontiere di “public scrutiny”, offrendo nuovi strumenti di “peer competition” tra Stati, accelerando i processi di traduzione, pubblicazione e disseminazione delle raccomandazioni degli organi basati sui trattati delle Nazioni Unite e della revisione periodica universale, ma le organizzazioni del terzo settore italiane non riescono ancora a sfruttare appieno questo potenziale.

[7] Caroline Criado Peres, “Invisibili. Come il nostro mondo ignora le donne in ogni campo. Dati alla mano”, Einaudi, 2019.

[8] Il riferimento è all’Indice europeo sull’eguaglianza di genere costruito dall’EIGE, il cui rapporto 2020 è stato pubblicato il 29 ottobre, ma anche secondo l’indice costruito dal World Economic Forum, l’Italia è molto indietro: il 76° Paese per disparità di genere su 149 Paesi censiti dall’indagine, agli ultimi posti tra i Paesi più avanzati. In base all’indice del World Economic Forum, dal 2006 (prima edizione del rapporto) ad oggi, l’Italia ha guadagnato una posizione, grazie al forte miglioramento nel Political Empowerment, che ha beneficiato dell’introduzione delle quote di genere nella composizione delle liste elettorali. Negli altri ambiti, l’Italia ha però evidenziato chiari peggioramenti.

[9] Si veda in merito il primo rapporto sull’attuazione della Legge Golfo Mosca L 120/2011 sulla parità di genere nei consigli di amministrazione delle società quotate e il DPR 251/2012 sulla rappresentanza nelle controllate pubbliche pubblicato a febbraio 2020 dall’osservatorio Cerved-Fondazione Bellisario, in collaborazione con Inps, https://know.cerved.com/wp-content/uploads/2020/02/PPT-Cerved_Bellisario_FEB_2020.pdf.

Si vedano anche le analisi sull’effetto e le criticità dell’avanzamento della legge di Alessia Mosca, ora in Fuori Quota https://fuoriquota.org

[10] Si veda il Rapporto dell’Economic World Forum pubblicato a dicembre 2019 https://www.weforum.org/reports/gender-gap-2020-report-100-years-pay-equality

[11] “Gender mainstreaming has been embraced internationally as a strategy towards realizing gender equality. It involves the integration of a gender perspective into the preparation, design, implementation, monitoring and evaluation of policies, regulatory measures and spending programs, with a view to promoting equality between women and men, and combating discrimination.” (EIGE)

[12] World Bank Coronavirus Live Series: The Impact of the Pandemic on Women and Girls, 15 May 2020 https://live.worldbank.org/coronavirus-impact-pandemic-women-and-girls; The indirect impact of COVID-19 on women, The Lancet, 1 August 2020, https://www.thelancet.com/journals/laninf/article/PIIS1473-3099(20)30568-5/fulltext; COVID-19 and its economic toll on women: The story behind the numbers, 16 September 2020  https://www.unwomen.org/en/news/stories/2020/9/feature-covid-19-economic-impacts-on-women?utm_source=dlvr.it&utm_medium=facebook

[13] https://www.un.org/en/sections/observances/united-nations-observances/

[14] Si veda, per esempio, in merito a misoginia e movimento #metoo in Italia: https://www.lastampa.it/rubriche/lo-stato-delle-donne/2018/09/03/news/dalle-veline-a-asia-argento-perche-in-italia-metoo-e-stato-accolto-con-scetticismo-1.34042582. Inoltre, in merito all’empowerment delle bambine e delle ragazze, dirompente è l’edizione appena uscita dell’Atlante dell’infanzia a rischio 2020, “Con gli occhi delle bambine“, a cura di Save the Children

[15] Chiara Volpato, “Le radici psicologiche della disuguaglianza”, Laterza 2019.

[16] Amartya Sen, Joseph Stiglitz, Anthony Atkinson, Branko Milanović, Thomas Piketty.

[17] Chiara Volpato descrive processi psicologici e sociali che non sono appannaggio di un preciso gruppo sociale di dominanti e dominati (es. dirigenti e dipendenti, ricchi e poveri, cittadini e richiedenti asilo). Tutti possiamo rivestire il ruolo di dominati o dominanti a seconda del momento, dell’interazione, della gerarchia nella quale siamo inseriti, del ruolo che indossiamo in quello specifico contesto economico, sociale, culturale etc.

[18] Nell’analisi di Chiara Volpato della teoria dell’identità sociale proposta da Henri Tajfel negli Anni Ottanta, quando gli individui pensano che lo status sia legittimo e stabile e permeabile adottano una ideologia che promuove gli sforzi individuali e l’accettazione dello status quo per la collettività. Quando invece pensano che lo status dei gruppi sia illegittimo e instabile e che sia impossibile il passaggio da un gruppo all’altro adottano un’ideologia di cambiamento sociale.

[19] Maya Salam, What is toxic masculinity? Jan 22, 2019, https://www.nytimes.com/2019/01/22/us/toxic-masculinity.html

[20] Sheryl Sandberg, Lean in: women, work and the will to lead, 2013. Si veda anche https://leanin.org/

[21] Sulla storia della casa editrice “Dalla parte delle bambine” si veda https://unionefemminile.it/dalla-parte-delle-bambine-casa-editrice/

[22] Si vedano anche programmi innovativi come “Bet she can” per bambine e ragazze preadolescenti https://www.betshecan.org

[23] A Lean In Podcast: Helping boys get out of the “man box” with Peggy Orenstein & Dr. Michael Reichert, https://leanin.org/tilted-podcast-season-2/helping-boys-get-out-of-the-man-box

[24] Detonante in merito il tweet del Ministro Giuseppe Provenzano, l’8 giugno 2020, che ha rifiutato di intervenire in un panel di soli uomini, dando nuovo vigore anche in Italia al boicottaggio dei “manels”: “è l’immagine non di uno squilibrio, ma di una rimozione di genere. Mi scuso con organizzatori e partecipanti, ma la parità di genere va praticata anche così: chiedo di togliere il mio nome dalla lunga lista. Spero in un prossimo confronto. Non dimezzato, però”.

[25] Su una delle “arti minori”, donne e giustizia sociale, bellissima la serie di podcast di Jo Andrews dedicata ai tessuti, https://hapticandhue.com/listen/

[26] Sul concetto di “immaginazione sociale” come capacità di immaginare una società diversa e, possibilmente, migliore, più equa, più inclusiva, più felice, caratterizzata da nuove forme di stare bene insieme, con noi stessi, con la comunità in cui viviamo, con il resto dell’umanità, con il pianeta, Geoff Mulgan (https://www.demoshelsinki.fi/en/julkaisut/the-imaginary-crisis-and-how-we-might-quicken-social-and-public-imagination/) illustra varie ragioni del perché oggi, più che nel passato, università, think tank e partiti politici paiono poco capaci di assolvere questo ruolo.

[27] Molto interessante, in un momento di polarizzazione ed esacerbazione dei movimenti anti-gender a livello globale, il ruolo che potrà avere la miniserie TV “Mrs. America”, uscita nel 2020, che racconta la storia dei movimenti femministi degli Anni Settanta negli USA, capeggiati da Gloria Steinem, Bella Abzug, Shirley Chisholm, Betty Friedan e fronteggiati dalla ultra-conservatrice Phyllis Schlafly e il loro scontro in merito alla ratifica del ERA- Equal Rights Amendment, l’emendamento costituzionale originariamente proposto nel 1923, poi approvato dal Congresso nel 1972 e ancora pendente per la mancata ratifica da parte di un numero di Stati sufficiente all’entrata in vigore (38 Stati su 50): https://www.equalrightsamendment.org. Su come una serie TV può cambiare la percezione di intere nazioni è recentissima l’analisi di Marina Pierri in “Eroine. Come i personaggi delle serie TV possono aiutarci a fiorire”, 2020.

[28] Philanthropy Advancing Women’s Human Rights (PAWHR), Women Moving Millions, Philanthropy Women, Women Funding Network, Global Fund for Women.

[29] Specificamente su SDG5 si veda https://www.worldbenchmarkingalliance.org/gender-benchmark/ con un primo baseline report appena lanciato a settembre 2020 sulle 36 più importanti industrie della moda.

[30] Dana Kanze, “The real reason female entrepreneurs get less funding”, TED TALK, 2017 https://www.ted.com/talks/dana_kanze_the_real_reason_female_entrepreneurs_get_less_funding

[31] L’acronimo ESG diffuso a partire dal 2017 sta per “Environmental, Social, Governance” e si utilizza in ambito finanziario per indicare tutte quelle attività legate all’investimento responsabile (IR), che perseguono gli obiettivi di profitto tipici della gestione finanziaria, tenendo in considerazione aspetti di natura ambientale, sociale e di governance.

[32] Si veda a livello internazionale Generation pledge ; negli USA Resource generation; in Canada Resource movement; nel Regno Unito Resource Justice.

[33] Martha Nussbaum, “Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica”, 2011.