Abbiamo imparato, in questi mesi, che il lavoro può essere “smart”. Ora si pone il problema di capire se riusciranno ad esserlo anche i manager e le loro organizzazioni.
Lo “smart work”, per molti solo un’etichetta che, in realtà, nasconde, nient’altro che una replica esatta, ma a casa, del lavoro in ufficio, con un aggravio di difficoltà, soprattutto per le donne, legate ad una maggiore difficoltà nella conciliazione dei tempi della vita privata e quelli lavorativi.
Eppure, per molti altri, questi mesi di “smart work” hanno rappresentato davvero un cambiamento sostanziale nella gestione del lavoro, del flusso dei compiti e del tempo. Le recenti polemiche legate, per esempio, alle dichiarazioni del sindaco di Milano – «è ora di tornare a lavorare» – o a quelle di Pietro Ichino – «nella maggior parte dei casi è stata una vacanza pressoché totale, retribuita al 100%» – oltre a non cogliere la differenza tra queste due distinte esperienze, mostrano una visione del lavoro antiquata, ottocentesca, nella sua assoluta incapacità di riconoscere il valore dell’autonomia del singolo lavoratore.
I pregiudizi sul lavoro da casa
Perché il lavoro fatto a casa non sarebbe lavoro vero? Perché la maggiore autonomia di cui si gode, questo è il sott’inteso, verrà sfruttata per batter la fiacca, per fare vacanza, appunto. L’antidoto? Massicce dosi di supervisione e controllo, che solo il lavoro in ufficio può garantire.
Ma davvero questa è la migliore risposta al rischio di opportunismo, all’azzardo morale, che la maggiore autonomia dei lavoratori, comporta? Certamente sì, se si ritiene che il lavoro sia solo un costo, una forma di disutilità, che richiede una remunerazione monetaria per essere compensata.
Ma le cose si fanno un po’ più sfumate, invece, se si assume che la natura umana sia un po’ più complessa e che le ragioni che spingono e motivano all’azione anche i lavoratori, abbiano a che fare con questioni più profonde. I dati parlano chiaro. Abbiamo visto la settimana scorsa che i principali elementi che determinano il benessere dei lavoratori sono non monetari e hanno a che fare con autonomia, competenza e relazione (Bryce, A., 2018. Finding meaning through work: eudaimonic well-being and job type in the US and UK, University of Sheffield. SERPS 2018004).
Se l’autonomia aumenta la qualità del lavoro
Altre indagini hanno messo in luce come, in un campione di undicimila lavoratori dei paesi Ocse, la percezione della qualità del proprio lavoro, assieme alla sicurezza dell’occupazione e l’interesse intrinseco del lavoro, dipenda in maniera rilevante dalla possibilità di lavorare in autonomia (Clark, A., 2005. Your Money or Your Life: Changing Job Quality in OECD Countries. British Journal of Industrial Relations 43, pp. 377-400.
Eppure, come anche il dibattito di questi giorni sembra mostrare, come ci ricorda Daniel Pink: «sebbene alcune aziende abbiano oliato un po’ gli ingranaggi, e molte di più abbiano solo finto di farlo, i loro principi di management non sono cambiati poi molto nel corso di un secolo. L’etica fondamentale rimane il controllo» («Drive», 2010, p. 74).
Quello del controllo è lo strumento principe del management contemporaneo, lo si voglia ammettere o no. Perché la finalità principale della maggior parte delle organizzazioni economiche non è quella di creare valore condiviso attraverso l’azione coordinata e cooperativa di diversi soggetti, ma piuttosto «indurre i lavoratori ad agire nell’interesse dei loro datori di lavoro».
Per facilitare questo processo, continua Canice Prendergast, economista di punta della business school dell’Università di Chicago, la teoria economica “ha studiato una moltitudine di meccanismi [che] includono il cottimo, le opzioni, i bonus discrezionali, la partecipazione ai profitti, i salari di efficienza, le compensazioni differite, e molti altri” (Prendergast C., 1999. «The Provision of Incentives in Firms», Journal of Economic Literature 37(1), pp. 7-63).
Il modello (inefficace) del controllo
Eterodiretti, controllati e spinti a fare qualcosa che, altrimenti – questa è la convinzione di fondo – non saremmo disposti a fare o a fare bene. Questa è l’immagine predominante dei lavoratori, sia nell’ambito di molta ricerca economica, sia, soprattutto, in molte di quelle business school che formano le leve del management del futuro.
Certamente sì, se si crede che il lavoro sia una merce come un’altra e che il lavoratore punti solo a venderla per massimizzare la differenza tra benefici e costi. Certamente sì, se si adotta una prospettiva scientificamente antiquata, deterministica, meccanicistica dell’essere umano. Una scatola nera che processa stimoli e produce reazioni o, nel migliore dei casi, – secondo il paradigma del condizionamento operante – che mette in atto comportamenti per ottenere stimoli.
Naturalmente questo modello non solo è fattualmente falso, ma soprattutto inefficace, in particolare, rispetto soprattutto a quei lavori nei quali creatività e iniziativa sono elementi essenziali, lavori che oggi caratterizzano gran parte dell’economia mondiale.
C’è chi si spinge oltre nel considerare un modello di agenzia così riduttivo, non solo inefficace, ma addirittura dannoso. È il caso di Robert Gibbons, della Sloan School of Management del MIT di Boston, secondo il quale: «Una relazione di lavoro è anche una relazione sociale (…) una delle possibilità è che i modelli economici che ignorano gli aspetti psicologici e sociali possano essere delle descrizioni incomplete del funzionamento degli incentivi nelle organizzazioni.
Una seconda, più allarmante possibilità, è che pratiche di management basate su tali modelli possano danneggiare (e perfino distruggere) realtà non economiche importanti come le motivazioni intrinseche e le relazioni sociali» (1998. Incentives in Organizations, Journal of Economic Perspectives, 12(4), pp. 115–132, pp. 130).
La mancanza di autonomia soffoca la produttività
Le analisi di Francis Green, dello University College di Londra, mostrano come la mancanza di autonomia sul posto di lavoro rappresenti la principale spiegazione per il calo della produttività e della soddisfazione professionale nel Regno Unito (Demanding Work. The Paradox of Job Quality in the Affluent Economy. Princeton University Press, 2006).
Sarebbe ora di comprendere, quindi, che, sia in ambito pubblico che in quello privato, la vera sfida, non è tanto quella di piccolo cabotaggio, di far tornare le persone al lavoro «come prima», come sembrano suggerire Sala e Ichino e molti altri con loro, ma piuttosto quella di frontiera che ci dovrebbe permettere di passare ad modelli organizzativi più rispettosi della nostra vera natura; modelli progettati per le persone e non per gli «homini oeconomici» dei manuali introduttivi di micreconomia.
Non ci servono, dunque, strumenti più efficaci per controllare (reprimere?) la nostra natura, ma idee e manager capaci di creare le condizioni perché questa natura possa essere liberata, valorizzata e fatta fiorire. m Il grande assente, nella discussione sul lavoro, è il tema dell’autonomia.
Storicamente si capisce. L’organizzazione scientifica del lavoro nasce proprio per ridurre l’autonomia individuale e facilitare il coordinamento collettivo. Per eliminare ogni spazio di discrezionalità nell’azione del singolo affinché questa potesse inserirsi in un piano complessivo ben orchestrato dagli ingegneri della produzione.
Un modello ottocentesco e le sue ricadute
Ma questo è un modello ottocentesco, adatto alla catena di montaggio, alla cultura e allo spirito del tempo. Oggi il mondo è cambiato, lo sono anche le produzioni; dovrebbero cambiare, nel profondo, anche le idee alla base del governo delle imprese. L’autonomia, si diceva, assieme a competenza e relazionalità, sono, secondo Edward Deci e Richard Ryan, psicologi, padri della teoria dell’autodeterminazione, uno dei tre bisogni fondamentali dell’essere umano (”Self-determination theory and the facilitation of intrinsic motivation, social development, and well-being”. American Psychologist 55, pp. 68–78. 2000).
Troviamo le radici profonde di questo dibattito nel «Saggio sulla libertà» di John Stuart Mill, che oltre ad essere un grande filosofo è anche stato anche un grande economista: «La natura umana – scrive Mill nel Saggio – non è una macchina da costruire secondo un modello e da regolare perché compia esattamente il lavoro assegnato, ma un albero, che ha bisogno di crescere e di svilupparsi in ogni direzione, secondo le tendenze delle forze interiori che ci rendono una persona vivente». A una macchina si chiede efficienza, una persona dovrebbe essere guidata da una coerenza riflessiva, da una volontà autonoma di perseguire interessi e obiettivi attraverso scelte autodirette. Sarebbe un tema interessante da sviluppare nell’annoso dibattito sulla produttività del lavoro in Italia. «Quindi ognuno dovrebbe poter fare ciò che vuole?», mi si potrebbe obiettare. «In un’organizzazione, e non solo economica, questo porterebbe al disastro», si potrebbe continuare.
L’equivoco sulla «autonomia» dei lavoratori
Giustamente. Ma tali critiche si basano su un equivoco. Essere autonomi non significa né essere indipendenti, né tantomeno essere ir-responsabili. Per poter essere autonomi, così ci insegna, per esempio, Martin Hollis, è necessario essere informati. L’assenza di asimmetrie informative è precondizione per una azione realmente autodiretta. La questione dell’informazione implica quella della distribuzione del potere e della sua distribuzione in una società aperta, nella quale, appunto, il potere è distribuito e l’accesso all’informazione è libero.
Ecco perché il concetto di autonomia ha una dimensione sociale e non ha niente a che fare con l’indipendenza, individuale o, ancora peggio con il solipsismo. L’autonomia prevede come precondizione una fiducia ben risposta nei confronti degli altri, perché essere autonomi prevede più l’autodirezione che l’autosufficienza. E un essere autonomo, continua John Stuart Mill «finisce, quasi in modo istintivo, per prendere coscienza di sé stesso come di un essere che si preoccupa naturalmente degli altri» (Utilitarismo, 1861, p. 85). Ci accorgiamo così, paradossalmente, che quello di autonomia è un concetto intrinsecamente relazionale. La nostra autonomia nasce e si sviluppa con e per gli altri.
Relazionalità. Era il secondo bisogno fondamentale nell’ambito della teoria dell’autodeterminazione e l’altro elemento più importante per i lavoratori, assieme ad autonomia e sicurezza dell’impiego.
Sarebbe ora di comprendere che «Management non significa andare in giro a vedere se le persone sono nei loro uffici» (Daniel Pink), ma costruire architetture organizzative all’interno delle quali le persone siano felici di interagire perché si sentono valorizzate ed hanno la possibilità di far fiorire tutte le loro potenzialità.
Libertà come sinonimo di fiducia
Non significa rinunciare a obiettivi precisi e scadenze ben definite, ma prevedere spazi di autonomia sul come e quando lavorare per raggiungere quegli obiettivi prefissati entro quelle scadenze stabilite. In questo modo, favorire l’autonomia, non implica una riduzione della responsabilità e dell’accountability. Tutt’altro. Si tratta di passare da una visione nella quale si assume che la maggiore libertà verrebbe utilizzata opportunisticamente per ridurre impegno e determinazione, ad una, nella quale, maggiore libertà significa riconoscimento delle motivazioni intrinseche e attribuzione di fiducia. Due elementi che, come sappiamo, hanno un fortissimo impatto motivazionale.
Saremo capaci di accogliere questa nuova sfida della creazione di ambienti che permettano ai nostri bisogni innati di essere coltivati e soddisfatti anche mentre lavoriamo, proprio grazie al lavoro che facciamo? «Di una persona i cui desideri e impulsi siano i suoi – ci ricorda ancora Mill – si dice che possiede un carattere. Una persona i cui desideri e impulsi non siano i suoi non ha più carattere di quanto non ne abbia una macchina a vapore” (1859, p. 89). Vogliamo comunità di persone o assemblaggi di macchine a vapore? ».