«Il senso di essere utile e persino indispensabile, sono bisogni vitali dell’anima umana». Così si esprime ne “La prima radice” (Edizioni di Comunità, 2017), quella grande protettrice laica del lavoro che è Simone Weil. «Una completa privazione di questo – prosegue – si ha nell’esempio del disoccupato, anche quando è sovvenzionato sì da consentirgli di mangiare, di vestirsi, di pagare l’affitto. Egli non rappresenta nulla nella vita economica e il certificato elettorale che dimostra la sua parte nella vita politica non ha per lui alcun senso».
Ripartire dal lavoro
Stiamo provando, con fatica, a ripartire dopo mesi di blocco della scuola, dei movimenti, del lavoro. E allora, forse, il tempo è propizio per interrogarci sul significato di ciascuna delle attività a cui, per la tragedia di questa pandemia, abbiamo dovuto, così repentinamente, rinunciare. È importante ripartire innanzitutto dal lavoro, come bisogno fondamentale dell’anima, però, non solo come attività di sostentamento puramente materiale. Le conseguenze dello stop che le attività economiche, piccole e grandi, hanno subito a causa del lockdown, il 65% del totale, si stima, per complessivi otto milioni di lavoratori, non si riflette solo nella chiusura fisica dei luoghi di lavoro, nella riduzione dei redditi degli addetti, nelle difficoltà di una riapertura. Anche, naturalmente. Ma forse il costo più grande, perché più profondo e fondamentale, che ci si è rovesciato addosso è stato quello derivante dalla sospensione temporanea della possibilità di sentirci utili, attivi, di esercitare creatività, ingegno e servizio. Tutte componenti primarie di ciò che noi definiamo “lavoro”.
Purtroppo la rappresentazione che hanno dato e che ancora danno i media di questo problema è stata spesso piatta e unidimensionale; senza quello spessore che ci aiuta a comprendere il fenomeno al di là delle sue immediate conseguenze di natura monetaria. La scelta dei testimoni, delle storie e delle situazioni da raccontare o ffre una visione distorta, che non rende giustizia di un fenomeno che è più complesso e sfaccettato, proprio perché complessa e sfaccettata è la natura di quel bisogno vitale dell’animo umano che è il lavoro. Ma anche se non viene raccontato adeguatamente, il fenomeno non sparisce, sta lì a determinare e a condizionare le nostre vite nel bene e nel male. Per questo può aver senso dedicarci qualche riflessione.
Una visione angusta del lavoro
Siamo cercatori di senso prima che lavoratori; siamo cercatori di senso anche nel nostro lavorare; a volte, soprattutto, nel nostro lavorare. Eppure, ancora troppo frequentemente, il lavoro viene rappresentato solo come una via per procurarsi i mezzi per vivere, una fonte di “disutilità” a leggere i manuali di economia, un’attività costosa che può essere intrapresa solo in cambio di una remunerazione capace di compensare, di comprare tale costo.
Fin quando continueremo ad insegnare, però, che il lavoro è una merce, che il salario è il suo prezzo e che questo dipende dal “costo-opportunità” e dalle condizioni di equilibrio del mercato, molto poco potrà cambiare. Una visione così angusta non può produrre nessun miglioramento degno di nota nella nostra comprensione di cos’è il lavoro, perché manca la comprensione profonda di ciò che davvero vogliono i lavoratori; di ciò che li motiva, ciò che, veramente, cercano nel lavoro. Se il lavoro è solo uno scambio tra chi vuole costringerci a fare qualcosa che non ci piace e noi, che abbiamo solo il bisogno di spuntare il prezzo giusto per questo “sforzo”, allora il panorama non potrà che essere dominato dall’ideologia dell’incentivo. Ogni possibile problema potrà essere risolto, come insegna la teoria dell’agenzia, attraverso la progettazione di uno schema ottimale di remunerazione monetaria. Il ruolo della gestione delle risorse umane – espressione già di per sé rivelatrice di una certa mentalità – si riduce a nient’altro che all’offerta del giusto pacchetto di incentivi e l’offerta di lavoro, d’altro canto, sarà determinata esclusivamente dal rapporto di scambio tra l’utilità ricavata dal reddito e l’utilità ricavata dall’ozio.
Sfido chiunque, tra coloro che non hanno un dottorato in economia, a sottoscrivere una visione così angusta del lavoro. E non si tratta di una questione di metodologia della scienza, non si tratta della legittima necessità di costruire modelli semplificati della realtà per poter comprendere a fondo le leggi che la governano, si tratta semplicemente di aver scelto le variabili sbagliate, certamente non le più rilevanti, per descrivere un fenomeno, quello del lavoro, la cui finalità principale non è farci guadagnare, ma, piuttosto, quella di concorrere a dare un senso alla nostra vita.
Gli “economisti civili”
Sarebbe ora di iniziare a raccontare un’altra storia. Ne abbiamo gli strumenti, l’occasione e soprattutto la necessità; perché gli esseri umani sono, innanzitutto, cercatori di senso (meaning seeker) e non massimizzatori razionali della loro utilità individuale, come ancora leggiamo in certi manuali. E la cosa fa una differenza enorme. C’è una piccola, ma agguerrita cerchia di studiosi che ha colto quest’aspetto, che lo sta studiando e ne sta traendo lezioni e implicazioni istituzionali. In Italia, certamente, il gruppo degli “economisti civili” da tempo va complicando la disciplina, come suggeriva Albert Hirschman, contro una visione eccessivamente parsimoniosa di categorie come lavoro, utilità, mercato.
Ma anche a livello internazionale, Andrew Clark e Andrew Oswald, per esempio, hanno mostrato come il lavoro contribuisca al benessere dei lavoratori indipendentemente dalla sua dimensione strumentale. Sulla stessa linea, il premio Nobel George Akerlof assieme a Rachel Kranton, hanno sottolineato l’importanza della congruenza dei valori individuali, di ciò che definiamo come la nostra identità, con i valori espressi, nei fatti e non a parole, dalle organizzazioni per la quali lavoriamo.
La non strumentalità del lavoro
Un punto, quello della non strumentalità del lavoro, che aveva capito, già molto tempo, fa il grande Alfred Marshall. Nei suoi “Principi di Economia” (1890), il primo e più importante manuale moderno della disciplina, infatti, scrive: «Il desiderio di eccellenza, di per sé, riguarda Newton o Stradivari, così come quel pescatore che, anche quando nessuno sta guardando e non ha fretta, si diletta a fare bene il suo mestiere (…). Desideri di questo tipo esercitano una grande influenza sulle più alte facoltà e sulle più grandi invenzioni e non sono irrilevanti sul lato della domanda. Perché gran parte della domanda per i servizi professionali più qualificati e i prodotti migliori dell’artigiano meccanico, nascono dalla gioia che le persone hanno nel perfezionamento e nell’esercizio delle proprie facoltà».
Il lavoro è, e dovrebbe essere sempre più, luogo e strumento di realizzazione di un progetto, di ricerca di senso e di fioritura umana. Fortunatamente iniziamo anche ad avere dati abbondanti a sostegno di questa tesi.
Benessere non-monetario dei lavoratori
In una recente indagine condotta su più di cinquecentomila lavoratori negli Usa e in Inghilterra, Andrew Bryce dell’Università di Sheffield, ha analizzato i principali elementi non-monetari, che determinano il benessere dei lavoratori (Bryce, A., 2018. Finding meaning through work: eudaimonic well-being and job type in the US and UK, University of Sheffield. SERPS 2018004). Si tratta di un benessere eudamonico, nel senso aristotelico del termine, un benessere che deriva dalla possibilità di fiorire come persona, di trovare senso e compimento nelle vicende della propria vita. In questo quadro possiamo chiederci, allora, da cosa dipenda il valore intrinseco di un lavoro, di cosa andiamo alla ricerca per soddisfare quel “bisogno vitale dell’anima” di cui parlava Simone Weil?
Incrociando una enorme quantità di dati sull’uso del tempo e sul corrispondente benessere dei cittadini inglesi e americani, Bryce trova che i lavori che soddisfano meglio il nostro bisogno di senso e finalità, sono quelli che combinano tre elementi: un elevato livello di autonomia professionale, la possibilità di esercitare un impatto diretto sul benessere degli altri e la possibilità di agire nell’ambito di una organizzazione o di una relazione caratterizzata da alti livelli di fiducia. Autonomia, socialità e fiducia; sembra questa la triade ideale di quelle occupazioni che non solo non vengono percepite come fonte di disutilità, ma da cui dipende in maniera rilevante il nostro benessere. Questo, naturalmente, non significa che lavorare non sia faticoso, a volte duro e impegnativo, tutt’altro.
Significa, piuttosto, che tra tutte le attività che svolgiamo durante la nostra vita, il lavoro come sorgente di senso, ci rende più felici di molte altre attività meno impegnative, come, per esempio, andare a fare shopping, prenderci cura di noi stessi o della casa, uscire con gli amici, rilassarci o svagarci. Ci sono altre attività che, al contrario, contribuiscono più del lavoro alla nostra ricerca di senso: per esempio, fare volontariato, le attività di natura spirituale o religiosa, fare sport e prenderci direttamente cura degli altri in famiglia e fuori.
Più soddisfazione nel sociale e nel self-employed
Da queste considerazioni deriva che guardare al lavoro unicamente come una fonte di disutilità, compensata solo dai giusti incentivi economici, rappresenta una grossolana semplificazione. Siamo più complicati di così. Continuando ad andare a fondo sui dati, scopriamo, poi, che chi lavora nell’ambito di attività non-profit, mission-oriented e con una finalità di natura sociale, trae dal lavoro più senso e soddisfazione di quanto non facciano coloro che lavorano in un settore in cui il principale orizzonte è quello della massimizzazione del profitto. Un ulteriore elemento di differenziazione è rappresentato dal grado di autonomia di cui si può godere sul posto di lavoro. Coloro che sono self-employed sperimentano, in media, un livello di soddisfazione maggiore dei lavoratori dipendenti.
Come dicevamo poco sopra, il tema del significato e del senso, è in qualche modo indipendente da quello della complessità o delle difficoltà oggettive connesse al lavoro stesso. Vediamo, infatti, che mentre i lavoratori del non-profit si dichiarano più soddisfatti in termini di significato esistenziale, allo stesso tempo, sono soggetti a un livello di stress maggiore. In assoluto i lavoratori più felici, rispetto alla dimensione del senso, sono quelli occupati nei servizi sociali e di comunità, nel mondo della scuola e della sanità; proprio quelli che, allo stesso tempo, sono maggiormente a rischio di burnout ed esaurimento.
Il ruolo delle competenze
Anche le competenze che possono essere messe in campo, come già aveva notato Marshall, sono una componente importante del benessere lavorativo. In generale, infatti, i lavoratori con livelli più elevati di professionalità, sono più soddisfatti di coloro che hanno minori abilità e competenze, anche quando da tali professionalità derivano maggiori responsabilità, stress e fatica. Quest’ultimo effetto negativo sembra essere più che compensato dall’effetto positivo legato alla conquista di una maggiore autonomia, associata spesso, a livelli più elevati di abilità e competenze. Infine, anche la remunerazione economica, naturalmente, esercita un effetto positivo, ma soprattutto quanto viene percepita come una forma di riconoscimento per il lavoro svolto, piuttosto che come strumento di compensazione per un’attività non significativa.
Il senso del lavoro che dà benessere
In conclusione sembra di poter affermare, con ragionevole sicurezza, che il lavoro produce benessere di per sé, e tanto maggiore è questo benessere, quanto più profondo è il senso che dal lavoro stesso riusciamo a trarre. Avere la possibilità di lavorare in autonomia , per gli altri, con gli altri e in una relazione di fiducia, sembra il mix capace di produrre l’effetto maggiore sul nostro benessere eudiamonico. Elementi che, assieme alla possibilità di accrescere e perfezionare le nostre abilità, rivestono un ruolo significativamente maggiore di quello giocato dalla pura remunerazione economica.
Spunti per la ripartenza
Questi dati e queste analisi fanno emergere un quadro complesso e articolato del rapporto tra senso esistenziale e attività lavorativa. Un quadro molto diverso dalla visione tradizionale angusta ed eccessivamente parsimoniosa dei modelli economici standard. Le implicazioni operative di questi fatti sono cruciali per la vita delle organizzazioni e del sistema economico in generale, ma anche per le politiche pubbliche e per la misurazione dei loro impatti. Il tema degli incentivi nelle organizzazioni e nelle misure di politica economica, della progettazione di contratti ottimali e della regolamentazione di particolari attività con elevate esternalità sociali (azzardo, armi, gig economy), sono solo alcuni di quelli che vengono sollecitati da una migliore comprensione del nesso esistente tra lavoro e ricerca di senso da parte di ciascuno di noi. Avremo modo di parlarne diffusamente nelle prossime settimane.
Ora, con un occhio alle grandi manovre della ripartenza, possiamo solo augurarci che queste considerazioni possano trovare spazio nell’operato di chi si sta occupando di ripensare un sistema economico più resiliente, rispettoso dell’ambiente e sostenibile da un punto di vista sociale. Popolato da organizzazioni capaci di rispettarci, come lavoratori, ma ancor prima come persone, come cercatori di senso costantemente impegnati, anche attraverso il lavoro, a soddisfare il nostro vitale bisogno di essere “utili e persino indispensabili”.