Cosa cambierà nel “fare impresa” con l’esperienza della pandemia?

L’impresa è un soggetto fondamentale della società: nel suo fare, essa disegna le relazioni sociali, l’economia e la stessa presenza nell’ambiente. Mai come in questo momento di spaesamento globale, l’impresa assume un ruolo determinante per il futuro.

Per questo è importante riflettere sulla sua natura generativa!

generativa:

atta a generare, dal latino gènus; “produrre quasi come madre”.

grammatica generativa:

in grado di generare un numero infinito di frasi a partire da un insieme finito di regole.

comunità generativa:

una comunità capace di collegare

la propria azione in un senso, una direzione,una visione, un orizzonte comune e condiviso con la società nella quale opera.

L’impresa generativa esprime una cultura della responsabilità delle proprie azioni (etica), della molteplicità, del profitto come strumento di sviluppo, del medio e lungo tempo, del rispetto, della sobrietà, del lavoro quale espressione di dignità, dell’innovazione come capacità di trovare soluzioni che migliorano ciò che c’è e di immaginare ciò che potrà esserci.

È una cultura della cittadinanza, del riconoscimento del valore della persona, della difesa dei diritti e dei doveri di tutti, della partecipazione, della verità. È una cultura della comunità, dell’interdipendenza, della collaborazione.

Già dopo la crisi finanziaria ed economica del 2008, si erano messe in discussione le “regole” dell’economia e del fare impresa.

Nel 2009 Nicholas Sarkozy, allora presidente francese, istituì la Commissione sulla misurazione della performance economica, meglio conosciuta come Commissione Stiglitz. Il premio Nobel per l’economia guidava un gruppo di esperti, tra i quali l’altro Nobel Amartya Sen, e produsse un Rapporto di cui riporto alcuni stralci dall’introduzione:

“Il prodotto interno lordo (PIL) è la misura più diffusa dell’attività economica.

Il PIL misura soprattutto la produzione di mercato, anche se esso è stato trattato spesso come se fosse una misura del benessere economico.

Confondere i due aspetti può portare ad indicazioni fuorvianti sul benessere delle persone e causare decisioni politiche sbagliate.

La qualità della vita è un concetto più ampio che non la produzione economica e gli standard di vita. Comprende l’intera gamma di fattori che influenza ciò cui noi attribuiamo valore nel vivere, andando al di là del solo lato materiale.

La prima sfida trasversale per gli indicatori della qualità della vita è di approfondire le disuguaglianze delle condizioni individuali nelle varie dimensioni della vita, piuttosto che le condizioni medie in ogni paese. In una certa misura, la mancata considerazione di queste disuguaglianze spiega il “crescente divario”.

Misurare la ricchezza, la potenzialità di un Paese, che è la possibilità di realizzazione delle sue persone, non è solo questione di “prodotto interno lordo” ma di ben-essere, di felicità.

Già, felicità: una parola che raramente viene utilizzata nel lessico politico, economico e aziendale.

Eppure, questa parola ci porta a significati profondamente politici, economici e aziendali: compimento delle attese, realizzazione, azione che avviene senza affanno o difficoltà, equilibrio, imparzialità.

“Non chiedere a persone infelici di prendersi cura del degrado ambientale. Rendi felici le persone e loro saranno in grado di rispettare e amare il mondo.” 

È il pensiero che Philippe Starck, star mondiale del design,

Felicità deriva dal latino felice/fertile-nutriente, e ha la stessa radice di fecundus/fecondo.

La felicità è uno stato d’animo, una condizione di completezza, di soddisfazione, di chi è nutrito e può nutrire.

L’impresa che verrà dovrà essere orientata alla felicità collettiva, a quella condizione di completezza, di soddisfazione, di chi è nutrito e può nutrire.

Il rapporto tra economia e felicità ha origini lontane: era presente e centrale già nel pensiero filosofico antico, poi tra gli umanisti civili del Quattrocento italiano, nella Francia illuminista e, in particolare, nella tradizione dell’economia civile della Napoli di Antonio Genovesi e della Milano di Pietro Verri che definì la nascente scienza economica, come la “scienza della pubblica felicità”.

Poi il pensiero svoltò verso il concetto di ricchezza delle nazioni e di diritto alla felicità che spostarono il tema della felicità dal piano collettivo a quello individuale, privato, personale.

Per ritrovare il concetto di “pubblica felicità”, bisogna spostarsi in Asia negli anni Settanta. È Jigme Singye Wangchuck, sovrano di una piccola monarchia nella catena himalayana, il Bhutan, che propone l’approccio economico basato sulla felicità quale equilibrio tra bisogni di natura materiale, emozionale e spirituale. Parafrasando il PIL, il sistema di misurazione viene chiamato Gross National Happiness o Felicità Interna Lorda, e le dimensioni indagate sono: lo sviluppo umano, la governance, l’equilibrio e l’equità dell’economia, il patrimonio culturale e la conservazione dell’ambiente. L’idea e la pratica era, ed è ancora oggi nel 2020, di permettere al governo, attraverso tale misurazione, di individuare la direzione da preferire e le priorità per migliorare gli standard di vita.

Il tema della felicità e del rapporto economia/benessere torna in occidente negli anni della crisi economica e finanziaria (come abbiamo visto nella citazione del Rapporto Stiglitz) ma le azioni concrete rimangono sostanzialmente sulla carta nonostante l’aumento esponenziale della sofferenza sociale.

Dal 2012 le Nazioni Unite misurano il livello di felicità nel mondo attraverso il World Happiness Report indagando su:

  • reddito effettivo pro-capite,
  • aspettativa di vita,
  • avere persone su cui contare,
  • libertà di fare le proprie scelte di vita,
  • libertà dalla corruzione,
  • la generosità da cui si è circondati
  • qualità dell’ambiente
  • altro

Il Report evidenzia lo stretto rapporto tra la vita in ambienti “felici” e la salute delle persone (fisica e mentale), la produttività del Paese, l’apertura culturale e relazionale, il livello di innovazione.

Nel Report del 2015, l’Italia (50° posto su 158), era uno dei 5 paesi del mondo, insieme a Grecia (102°) ed Egitto (135°), dove il livello medio di felicità era crollato drasticamente in soli tre anni. Questa caduta italiana, si leggeva nel Report, era dipesa dal basso livello attribuito a tre dei parametri di valutazione: libertà di fare proprie scelte di vita, libertà dalla corruzione, generosità da cui si è circondati.

Nell’ultimo report del marzo 2019, l’Italia ha risalito la classifica assestandosi al 36° posto. Il popolo più felice al mondo? I finlandesi. Seguiti poi da Danimarca e Norvegia seconda e terza sul podio, e subito dopo dall’Islanda, dai paesi Bassi, dalla Svizzera e poi da Svezia, Nuova Zelanda, Canada e Australia. Agli ultimi posti i Paesi colpiti da guerre e da conflitti che durano da anni come la Siria, lo Yemen, l’Ucraina, il Sud Sudan.

Gli aspetti che ci hanno fatto risalire nella classifica sono stati: la speranza di vita in buona salute e il sostegno sociale della famiglia; i punti deboli sono la crescente rabbia e preoccupazione per l’autorealizzazione e la sfiducia nelle istituzioni.

In chiusura il Report del 2019 sottolinea la presenza, a livello mondiale, di una maggiore preoccupazione per il futuro.

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Trovo che la lettura di questi dati, oggi, produca una sorta di flashback:

se ci spostiamo al recente passato, ci accorgiamo di “non esserci accorti” di ciò che accadeva, di vivere in una bolla nella quale si poteva ignorare tutto ciò che non andava bene, tutto ciò che non avevamo fatto… ci accorgiamo di esserci assuefatti ad una realtà inattaccabile, inviolabile, rassicurante… fine a sé stessa.

Poi il Cigno Nero: un virus che, come accade periodicamente, migra da una specie ad un’altra… in quell’ambiente che riteniamo di poter governare, il cui stress, la cui evidente sofferenza può aspettare che si continuino a soddisfare i nostri interessi, i nostri affari…

E ora? La pandemia passerà ma resteranno molte macerie e dobbiamo avere la forza e il coraggio di ricostruire.

Cosa fare?

Una riflessione: i due terzi dell’economia del nostro Paese proviene dal settore privato. Quindi, se si vuole cambiare la società, se si vuole misurare la forza del Paese, la sua capacità di reagire e progredire… bisogna cambiare il modo di fare impresa