«Ci troveremo a ricostruire, ma non ci saranno macerie. Le macerie le avremo dentro. Per questo il nostro compito è iniziare subito a immaginare il futuro». Mauro Magatti insegna all’Università Cattolica di Milano ed è tra i sociologi più attenti alle dinamiche sociali del nostro Paese. Nel suo ultimo libro, Non avere paura di cadere. La libertà al tempo dell’insicurezza (Mondadori, 2019), ricorda che la libertà va allenata, è un esercizio costante di responsabilità, condivisione e attesa.
La libertà, spiega Magatti, «è una sfida complessa e quotidiana, che non riguarda mai solo l’individuo, ma ogni relazione che prende forma negli ordini sociali, culturali e politici». Soprattutto oggi, davanti a una pandemia che rischia di travolgere proprio il senso di fiducia, relazione e legame su cui poggiano concetto e pratiche dell’agire libero e responsabile.
Forse per la prima volta, in modo diffuso e capillare, capiamo davvero cosa significhi vivere nella società del rischio…
Non avevamo colto a pieno quanto le riflessioni sul rischio di autori come Ulrich Beck fossero importanti. La tesi di Beck è chiara: la società avanzata genera rischi e, con la sua crescita, li moltiplica. Indipendentemente dall’origine di Covid19, se sia dovuto a crisi ambientali o altro, indubbiamente la velocità, l’accelerazione e il modo in cui ha impattato hanno a che fare con una dimensione integrale di rischio.
Che implicazione ha questa dimensione integrale di rischio sulle nostre reazioni al Coronavirus?
Partiamo dalle reazioni immediate: quando sentivamo parlare di quanto accadeva in Cina abbiamo subito pensato si trattasse di una cosa lontana, che non ci avrebbe mai riguardati o coinvolti. Ma questa impreparazione non è stata solo collettiva, è stata anche individuale. Tutti, io per primo, abbiamo fatto l’esperienza della vulnerabilità della vita.
Questa esperienza della vulnerabilità accadeva già in forma privata, ma non collettiva?
Malattie e incidenti toccano tutti. Ma eravamo abituati a declinare la nostra vulnerabilità nel privato, come se riguardasse gli altri e non noi o, viceversa, noi e non gli altri. Invece, oggi, stiamo imparando che esiste una dimensione comune della vulnerabilità e della fragilità. Sul piano collettivo questa esperienza è piombata come un fulmine e questo fulmine stravolge la nostra società.
Da sempre le società umane vanno avanti con il gruppo, la solidarietà, come risposte alle spinte primordiali. Come reazione alla nostra paura
Se ci chiediamo perché l’Italia sia stata così colpita da Covid-19, possiamo trovare una gamma molto ampia di risposte: l’inquinamento, il clima, le quarantene tardive. Possiamo alimentare polemiche o scegliere banali, anche se comprensibili, scorciatoie cognitive. Ma per Jennifer Dowd, professore associato di Demografia e Salute della Popolazione all’Università di Oxford e Vicedirettore del Leverhulme Centre for Demographic Science, che con dei colleghi ha condotto uno studio accurato sull’epidemiologia del contagio nel Nord del nostro Paese, la ragione di fondo è un’altra ed è strutturale, non contingente: risiede nella natura del nostro legame sociale…
Covid19 tocca il legame sociale da molti punti di vista. Poiché il contagio ha a che fare con il contatto, società ad alto contatto fisico come le nostre sono tra le più esposte alla velocità di diffusione del contagio stesso. Questo è un aspetto che va colto e sottolineato, stando attenti a non demonizzare il contatto o altre attività sociali (pensiamo al caso dei runner e a tutta la polemica che si è innescata).
Ci sono, però, altre situazioni da considerare?
La prima: usiamo l’espressione “virale” per descrivere ciò che va in giro per la rete e usiamo la parola “virus” per dire ciò che blocca la rete. In una società dove gli individui si muovono molto e sono molto connessi un’epidemia, come un virus informatico, può innestarsi negli stessi canali di movimento e bloccare il sistema. L’epidemia ha bloccato le tante interazioni, super mobili e dislocate nello spazio, su cui è stata costruita la nostra società. Una società edificata su un’ipotesi di fondo: che esistesse un’immunizzazione al dolore, alla morte, alla fragilità. Oggi scopriamo che non è così.
Da un lato, dunque, abbiamo la densità delle relazioni che intensifica il contatto dando forma al legame sociale, dall’altro la velocità delle interazioni che lo accelera e lo diffonde…
In mezzo a questa intensificazione e a questa accelerazione abbiamo il grande tema della responsabilità. Il Coronavirus ci forza a riconoscere il fatto che i comportamenti di ciascuno hanno riflessi sugli altri. Come conseguenza di questa presa d’atto, c’è il passaggio fondamentale per rigenerare fiducia e speranza: capire che nessuno si salva da solo. A proposito delle relazioni e del nostro modo di stare insieme questa vicenda ci sta insegnando molto.
Anche nei piccoli comportamenti quotidiani Covid19 sta influendo, non solo in termini di restrizione di legge, ma proprio nella declinazione pratica del senso di responsabilità di ognuno di noi?
Ci troviamo a un bivio e si vede tutta l’ambivalenza del nostro rapporto con gli altri, soprattutto ora che molto è mediato dalla tecnologia.
È evidente che bisogna coltivare la speranza. È come se dovessimo costruire un ponte tra il qui e ora e un avvenire che ancora non c’è
Tutto può andare in una direzione ma anche in un’altra. Pensiamo al tema della videosorveglianza, del controllo dei cittadini, ma anche a forme di autocontrollo o di denuncia (certe app per segnalare chi è fuori casa). Dobbiamo ovviamente chiederci: dove stiamo andando? Ma questa domanda non deve preludere a una risposta certa. Tutto è ancora aperto e tutto può diventare – e in alcune parti del mondo lo è già diventato – stato di controllo. Se il “bene della comunità” prevarica sulla libertà responsabile dell’individuo, soprattutto se si combina con dispositivi tecnici e deleghe in bianco alla tecnica stessa, allora si prefigura un’altra strada rispetto a quella della ricostruzione della fiducia.
Supereremo la paura e la diffidenza se capiremo che i rischi che stiamo vivendo riguardano tutti e si risolvono solo potenziando la cooperazione tra noi
Che tipo di strada?
La sicurezza data dai sistemi di controllo è la strada che si apre per farci transitare in qualche “regime” dove la proposta è chiara: teniamo tutto sotto controllo, fermiamo il pericolo, non assumiamo il rischio. E liberiamoci dall’angoscia e dalla paura. Ovviamente, questa è una via ingannevole.
Lei parlava, però, di ambivalenza. Vale anche per la tecnologia?
In questi giorni abbiamo visto che proprio l’infrastruttura digitale ci ha un po’ salvati: ci ha permesso di incontrarci, di sviluppare e mantenere vive delle attività lavorative e sociali. Il digitale è un’infrastruttura a rete che, necessariamente, sarà una risorsa per immaginare una società del post-virus. Una società che, comunque, avrà un volto molto diverso da quella in cui ancora viviamo.
Lo scenario che si presenta è di lunga durata. Dovremo convivere a lungo con il rischio e persino con la memoria del rischio…
Servirà del tempo. Impareremo a vivere diversamente, non sappiamo ancora come ma sappiamo che sarà così. Sarà così nel lavoro, dove abbiamo iniziato ad apprezzare il valore dello smart working. Sarà così nelle relazioni in famiglia, che questo momento di “reclusione” certamente problematico ci ha fatto riscoprire. Sarà così nell’impresa, che vedrà declinare la propria responsabilità sempre più in termini fattivi e non retorici. Ma questo non vuol dire niente, se non cominciamo a immaginare come il digitale possa essere davvero un’infrastruttura sociale.
Questo è un portato della tecnologia?
No, questo è un portato di un pensiero sociale. Un pensiero che si riorganizza e riorganizza la gerarchia tra mezzi e fini. Dobbiamo operare in questa profonda ambivalenza, dove ancora oscilliamo tra una società della sorveglianza e una società che si riorganizza in modo reticolare, intelligente e sociale. La partita si giocherà su questo crinale. In momenti storici come questo è evidente che bisogna coltivare la speranza.
È come se dovessimo costruire un ponte tra il qui e ora e un avvenire che ancora non c’è. Ma questo ponte può appoggiarsi solo sulle spalle di chi ha speranza.