In queste prime settimane la ribalta è stata tutta per la politica e gli stati nazionali. Nella fase dell’emergenza, gli interventi straordinari di finanza pubblica sono stati (e continueranno a essere) essenziali per contenere le conseguenze economico-sociali del lockdown. Un quadro a cui manca ancora il tassello fondamentale dell’Europa. Sappiamo però che queste risoluzioni di urgenza peseranno sul nostro futuro. Sul piano economico, secondo le stime, il debito italiano schizzerà oltre il 150% del Pil. Sul piano culturale, l’improvvisa disponibilità di denaro pubblico rischia di ingenerare l’idea magica che i soldi alla fine ci siano: basta aprire il rubinetto del sostegno statale. Finendo col rafforzare passività e assistenzialismo, di cui non abbiamo proprio bisogno in questo momento.
Sappiamo che l’Italia ha una propensione al risparmio privato molto alta, superiore a quella della maggior parte dei paesi avanzati. Secondo gli analisti, è proprio questa risorsa ciò che ha tenuto a galla il paese in questi anni. E infatti, se si guarda all’indebitamento complessivo (pubblico + privato), l’Italia risale molte posizioni: nella classifica Ocse, siamo addirittura al 6 posto con il 311% del Pil, distanti dalla Germania (236%), ma meglio di Usa (326%), Francia (398%), Regno Unito (452%) Olanda (626%) (dati Institute for International Finance).
Dai dati Banca d’Italia (2018) sappiamo che la ricchezza degli italiani supera i 10.000 miliardi di euro. Nella sua componente finanziaria (più di 4.000 miliardi) una parte consistente (1.400 miliardi) rimane in forma liquida (soprattutto depositi bancari), mente circa 1.000 miliardi é investita in riserve assicurative e fondi pensione. Una cifra ragguardevole a cui si possono aggiungere le risorse delle Fondazioni bancarie e di comunità – che si stima nell’ordine di diverse decine di miliardi di euro – oltre i capitali italiani detenuti all’estero.
È facile immaginare che il lockdown abbia eroso in parte questi valori. Ma domanda rimane: come mobilitare e convogliare almeno una parte di queste ingenti risorse (100-150 miliardi) in uno sforzo collettivo («bene come Italia») per rilanciare il paese in un momento delicato come quello che stiamo vivendo?
Per rispondere occorre tenere conto alcune considerazioni: gli italiani hanno una scarsa propensione al rischio; conoscono molto poco gli strumenti finanziari; sono molto diffidenti quando si parla di risparmi. Anche per questo investono prima di tutto nella casa (e infatti il patrimonio immobiliare copre più del 50% della ricchezza delle famiglie italiane per un valore superiore ai 6000 miliardi di euro).
Tuttavia, da una ricerca del Censis, si enucleano altri due aspetti importanti: la diffusa disponibilità dei risparmiatori a investire in infrastrutture e opere pubbliche (già prima del covid, superiore al 35%); il forte interesse a investire in attività che generano valore sul proprio territorio di appartenenza (superiore al 50%).
Sulla base di questi dati si può concludere che gli strumenti finanziari oggi esistenti non riescono a offrire al risparmiatore italiano una mediazione soddisfacente tra il bisogno di assicurare il proprio patrimonio e quello di investirlo per creare sviluppo. Si tratta di un punto importante sul quale vale la pena lavorare. Anche perché mette a tema uno dei capitoli che andranno riordinati in questo passaggio storico: la relazione tra risparmio, investimento, finanza e comunità.
Nella situazione creata dalla pandemia si possono allora pensare nuovi strumenti per sbloccare la situazione. Alcuni sono sconsigliabili. Ad esempio, una patrimoniale finirebbe per creare una serie infinita di reazioni negative. Allo stesso modo, è sconsigliabile l’emissione di nuovi bond che finiscano genericamente nel calderone del bilancio dello Stato: la diffidenza sarebbe troppo alta. Come ha anche di recente proposto il ceo di Banca Intesa Carlo Messina, ci sono diverse strade che possono essere battute per permettere ai risparmiatori di investire a favore delle proprie comunità. Sfruttando il fatto che non è mai stato così chiaro agli occhi di molti che il benessere individuale dipenderà in modo sempre più decisivo dalla qualità del contesto in cui si vive.
La prima è la creazione di nuovi veicoli di investimento, garantiti dallo Stato, che rendano possibile il finanziamento di grandi investimenti di interesse generale. Gestiti da società a controllo pubblico dotate di provata competenza manageriale (ad esempio Cassa depositi e prestiti). Una seconda strada è l’adozione nel nostro ordinamento degli strumenti giuridici e delle forme di governance necessarie per una gestione economicamente e socialmente efficiente i tanti «beni comuni» che contano nella qualità del nostro benessere (welfare, ricerca, ambiente, sanità, mobilità, formazione, patrimonio artistico etc.).
Il risultato di un’operazione «bene comune Italia» sarebbe duplice. Da un lato imprimere un forte impulso al rilancio dell’economia focalizzato nelle attività e nei settori che più sono in grado di attuare quel cambio di paradigma economico di cui la pandemia ci rende ancora più consapevoli. Dall’altro dare concretezza a quel senso di solidarietà che si è intravisto in queste settimane e che rischia di spegnersi velocemente se non trova appoggi concreti verso cui riorientarsi. Come la nostra Costituzione insegna, lo Stato è uno strumento, ma la Repubblica è fatta prima di tutto dai cittadini. Questo è il momento per farlo vedere.