Mi è capitato, come a molti altri docenti, di chiedere agli studenti che accompagno di raccontare questo tempo, con gli strumenti e le modalità da loro preferite perché l’espressione fosse un modo per riconoscersi liberamente. Narrare è lo strumento migliore per intrecciare, significare, far esistere qualcosa che altrimenti resterebbe nascosto, lavorando carsicamente, ed è dunque l’arma più potente a disposizione di chi vuole insegnare, anche in questo tempo difficile, generando condivisioni altrimenti impedite.
Le risposte dei ragazzi, di molte e diverse forme e tipologie, hanno messo in luce soprattutto la mancanza, la revisione della “normalità”, di ciò che fino a pochi mesi fa sarebbe stato invisibile o (mal) sopportato.
Quello che si è manifestato è un inciampo.
Inciampo / incontro-scontro con qualcosa di ordinario, quotidiano, la cui mancanza/presenza, differenza, rottura genera un disequilibrio, una caduta, una revisione. [libera definizione]
La verità dell’inciampo è rendere evidente qualcosa che era nascosto negli sfondi del nostro agire ed esistere. Permette di imbattersi in ciò che è-da-sempre come fosse una prima volta, riconoscendone la dimensione interrogante, potenziale, aperta. Ci permette di uscire dalle forme date, di cogliere la molteplicità e la pluralità della Vita, di vivere un’intensificazione del tempo, poiché, narrativamente, nasce dalla storia e proietta sulla trasformazione a-venire.
In questi quasi due mesi di isolamento e distanziamento, che per i docenti hanno significato soprattutto didattica a distanza, molte o moltissime sono state le testimonianze di professori, genitori, allievi che hanno messo in evidenza tutta la nostalgia e insieme la necessità dell’esperienza scuola.
Questo sentimento ha intersecato la drammatica carenza di progettualità delle istituzioni e dei molti organi di coordinamento e governo, più o meno straordinari. Notizie confuse, comunicazioni date male, grande difficoltà a muoversi nel mare di un’emergenza senza precedenti (e questa è anche l’attenuante).
Nostalgia e difficoltà di organizzazione spingono a rialzarsi in fretta e tornare in aula. Tutto verrà così sistemato, torneremo alla normalità.
E invece…
Siamo caduti, ma qual è il nostro inciampo? Che cosa davvero ci manca?
La risposta che sento di sostenere, senza alcuna imprevedibilità, è che il nostro inciampo è la relazione. Prevedibile, si, ma non banale.
La scuola non è riducibile alla sola relazione. Ma senza la relazione non c’è scuola; senza relazione non c’è vita.
L’arroccamento sulle procedure, sul proprio compito, sulla numerologia, è rivelazione dell’illusione di poter stare nella relazione solo funzionalmente, senza abitarla; di poter fare a meno di alimentare ciò che costituisce il compito del maestro che, nel solco della lunga tradizione socratico-cristiana, è stare nell’evento che ogni relazione produce perché sia il luogo della conoscenza e del riconoscimento, innanzitutto di sé.
L’inciampo è accorgersi che la relazione è divenuta – troppo spesso – uno sfondo, rimanendo priva della sua sostanziale e continua eccedenza, nata dalla fragilità e dall’esposizione all’altro che mi riconosce e non dalla ripetizione-dello-stesso.
Il nocciolo relazionale della scuola è l’incontro sempre unico e situato tra insegnante e discente. A fondare tale incontro non è mai l’obbligo, la costrizione, ma è la domanda, il grido sommesso di ogni ragazza e ragazzo che chiede di “essere visto” e accompagnato a sè. “Io ti vedo”, formula densa di significato e profondità utilizzata in Avatardi James Cameron, è azione concreta che coinvolge i cinque sensi: vive spesso nei corridoi, nelle aule svuotate dalla fine delle lezioni, nei cortili, sulla soglia dell’aula professori. Sommamente, nell’ora di lezione.
Ha una dimensione fisica, corporale; ha a che fare con parole ascoltate, sussurri, silenzi. Frammenti e rumori. Con sguardi intrecciati, teste chinate sul banco, occhi che ricercano. Si condensa nelle lacrime, così come nelle risate sguaiate e ingenue.
Riguarda i profumi e gli odori, le reazioni incontrollate dei corpi che rivelano la tensione; pacche sulle spalle, consigli accennati, ore di approfondimento e recupero tra i libri di una biblioteca.
Suoni di campanella, saluti mancati, corpi cresciuti e conosciuti nella loro trasformazione adolescente, cambiamenti che rivelano tanto la vita che esplode nella sua potenza, quanto il dramma della malattia.
Sono le emozioni. I lutti e le insoddisfazioni.
Il lunedì mattina quando gli occhi non si vogliono aprire.
Il giorno dopo una partita decisiva vinta, un concerto irripetibile; un litigio esasperato.
Sono gli innamoramenti rivelati da euforie ed entusiasmi, gli sguardi sognanti e disattenti, le sbandate.
Le presenze e le assenze.
Sono le stagioni segnate dalle mode, da vestiti troppo stretti, troppo larghi, troppo sgualciti. Le aule piene di luce e di tutti quei rifiuti che solo gli intervalli dei liceali sanno produrre.
Le parole, anche dure, per dire l’errore, il fallimento, la punizione. Le posture, le rigidità.
I viaggi d’istruzione, la novità di pochi potenzialmente irripetibili giorni di convivenza e scoperta.
È infine – ed è solo l’inizio – quell’abbraccio, che rompe le righe dei saluti ingessati, dopo cinque anni vissuti nel ruolo, ma densi di affetto autentico.
L’irripetibile di ogni cammino fatto fianco a fianco, al di là di ogni rappresentazione, dove un adulto sceglie di rispondere “Io ti vedo”, dando coraggio, con la propria testimonianza e con il proprio sapere, ad ogni ragazzo e ragazza perchè scopra e conosca il proprio desiderio.
Questo è il nocciolo materico e pulsante della relazione. Attorno al nucleo è tutto un intreccio di altre relazioni. Quelle tra i ragazzi e le ragazze, quelle tra i docenti, quelle con le famiglie, con i tanti specialisti, educatori, psicologi, preti; con chi le aule semplicemente le assaggia: teatranti, specialisti, conferenzieri…
Un nodo di relazioni, un intreccio che è ricchezza infinita, irriproducibile con la mediazione di schermi e distanze. Per quanta innovazione e sperimentazione siano possibili e necessarie in questo tempo sospeso, ogni mattina, accendendo il pc, si avverte sulla pelle l’inciampo.
Il ritorno, quando sarà, dovrà ripartire dalla relazione viva e dalla serietà che questa richiede ai docenti. Non improvvisazione ma autenticità; non bonarietà o amiconeria, ma la coscienza e autorevolezza della specificità di questa relazione; non inutili rigidità, ma la capacità essere solidi. Il tanto lavoro di docenti e studenti in queste settimane – tanto davvero, per i più – è molto concentrato sui saperi e, per i più impegnati, su forme precarie di scambio e dialogo; una forma di resistenza da cui emerge la mancanza.
A settembre, probabilmente, tornare in aula non vorrà dire soltanto recuperare autori, formule, conoscenze, svolgere prove e dare valutazioni, ma soprattutto recuperare pezzi di vita e di relazione, affrontando domande e vuoti, nuove e vecchie difficoltà e disagi. Istituire di nuovo le possibilità dell’incontro e del cammino; se possibile, meglio di come ci eravamo lasciati.
Per questo avremo bisogno di essere pronti, di pensare anche a distanza a senso e forme del nostro stare in relazione, di strutturare modalità per recuperare la vicinanza, di fare nuova la scuola a partire dal nostro inciampo.