Il Covid-19 sembra avere le idee chiare. La sua “strategia” per dividere e mettere in ginocchio il mondo intero si muove su due piani: da un lato, esso colpisce le fragilità – personali (anziani, pluripatologici, fumatori…) e istituzionali (i morti si moltiplicano laddove ci sono inadeguatezze organizzative e alti livelli di inquinamento) – dall’altro manda in tilt le interconnessioni su cui si fonda il nostro mondo: le catene degli scambi e delle interazioni tra le persone, le imprese, le istituzioni.
La domanda a cui siamo chiamati a rispondere è dunque questa: come reagiamo di fronte a questa doppia sfida che sembra davvero avere tratti “diabolici’ (divisivi)? Nelle settimane scorse i politici più sbruffoni (Trump e Johnson, oggi lui stesso contagiato) avevano annunciato che il virus non faceva paura, lasciando quasi intendere che in fondo esso avrebbe “alleggerito” società che “soffrono” del peso dovuto all’invecchiamento della popolazione. Secondo l’idea cinica che la potenza nazionale e gli interessi economici debbano venire prima della vita e della pietà umane.
Quando necessario, il debole va abbandonato per far vivere il forte. Abbiamo poi visto com’è andata: sotto la pressione della pubblica opinione, i due leader anglosassoni hanno dovuto fare marcia indietro e ora si trovano a rincorrere un problema che è scoppiato loro in mano, anche per il ritardo con cui lo hanno affrontato. Adesso, nella stessa logica, vediamo spuntare l’idea che i “forti” – o i presunti tali – in Europa (Olanda, Finlandia, Austria e in qualche misura la stessa Germania, a cui certo va riconosciuto il merito di avere i conti in ordine) sono tentati di fare da soli. Un po’ come nella favola della cicala e della formica, questi Paesi ritengono di potercela fare usando il cosiddetto Fondo Salva Stati (Mes) pensato in un’epoca completamente diversa.
E per questo si oppongono all’introduzione di quegli strumenti straordinari di politica economica che il buon senso dice necessari per gestire una situazione come quella che stiamo vivendo. Come ha autorevolmente affermato Mario Draghi sul Financial Times. La tentazione di questi Paesi è credere che il loro destino possa essere disgiunto da quello dei loro vicini (Italia, Spagna, Francia, cioè mezza Europa). Ma si tratta di un grandissimo abbaglio: il mondo che si va configurando vede crescere il peso delle grandi aree geopolitiche – Stati Uniti, Cina, India, Russia. In un gioco in cui nessun Paese europeo ha la stazza per potercela fare da solo. Per gli Stati nazionali del Vecchio Continente l’unica via di salvezza è riscrivere un’alleanza che li unisca. Un’alleanza che impegni tutti – i forti e i deboli – e che sia basata sul riconoscimento che c’è un bene in comune per raggiungere il quale si può aprire davvero la strada per la nascita della nuova Europa.
La Cina, che dichiara di aver superato la crisi del virus, ieri ha chiuso i voli internazionali. Una decisione che ci dice la direzione verso cui il mondo è destinato a muoversi: come dopo l’11 settembre abbiamo introdotto i controlli negli aeroporti, così dopo il Covid–19 la forma stessa delle interconnessioni internazionali dovrà essere rivista. La globalizzazione nella forma che abbiamo conosciuto alla fine del XX secolo è superata. Già traballante dopo il 2008, essa non sopravvivrà alla pandemia.
Quello che ci aspetta è invece il rafforzamento di aree politico-economico-culturali relativamente integrate e chiuse, la cui prosperità dipenderà prima di tutto dai mercati interni. E dal modello di sviluppo che sapranno mettere in campo per evitare la depressione che rischia di innescarsi. Dove il tema sarà duplice: all’interno come combattere le fortissime spinte a radicalizzare le disuguaglianze (sociali, generazionali, territoriali) con un nuovo modello di solidarietà che possa scongiurare il collasso dei sistemi politici; all’esterno, come definire i termini di una nuova interdipendenza tra le diverse aree del mondo, allontanando così i fantasmi della guerra e muovendosi verso forme più evolute di cooperazione per il governo delle grandi sfide comuni (ambiente, migrazioni, salute, etc).
L’Europa è oggi di fronte a questo bivio. O prende con coraggio la strada di una maggiore integrazione, aprendo così il proprio futuro (attraverso, ma ben oltre, i Reconstruction Bond) oppure è destinata a disgregarsi in preda agli egoismi interni. Nell’illusione, sempre risorgente nella storia, che i forti possono salvarsi a danno dei deboli. Ci convinca papa Francesco: «È tempo di reimpostare la rotta». Ci scuota il richiamo formulato, con saggezza e urgenza, dal presidente Mattarella: ogni ritardo nel riavviare autentica coesione e fattiva solidarietà potrà esserci fatale. E ci sia di monito l’antico proverbio africano: «Da soli si va più veloci. Insieme si va più lontano».