In questo tempo difficile persino da nominare e sempre più doloroso da attraversare, ci troviamo di fronte ad un’accelerazione impensabile delle condizioni che possono rendere l’uomo “saggio”.
Nel ragionare sulle diverse età della vita, Romano Guardini racconta che quando al cardinal Borromeo venne chiesto cosa avrebbe fatto se avesse saputo di morire un’ora dopo, il cardinale rispose così: “Cercherei di fare particolarmente bene quanto sto facendo ora”.
Sono giorni di preoccupazione. Un’angoscia diffusa ci accorcia il respiro, perché ci scopriamo tutti esposti ad un futuro a bassa ossigenazione. Ma proprio questo senso di caducità – racconta Guardini – può produrre qualcosa di buono, “la coscienza, sempre più lucida di ciò che non passa, di ciò che è eterno”. Una nuova “saggezza”.
Questo momento ci costringe a passare un guado, ad attraversare i canyon dell’esistenza, della verità del nostro esserci, poiché è quando ci manca l’aria, che ci accorgiamo di quanto essa sia preziosa. Allo stesso modo, questo riscoprirci precari ci spinge a fare i conti – mai in pareggio – della vita stessa. Anzi, è proprio questa impossibilità di pareggiarli, i conti, quando l’idea di una “fine” rientra nei nostri orizzonti, che spinge a puntare alto, ad alzare la posta, ad affrontare la grande domanda: cosa vale la mia vita?
Sembrerebbe strano, persi nell’orizzonte di domande così sconvolgenti, volgere lo sguardo al nostro ben più piccolo fare. O forse no. Perché “Cercare di fare bene quello che stiamo facendo” potrebbe significare oggi riconsiderare, per ridarvi senso e valore, a cosa ci stavamo dedicando “prima”, a cosa prendeva il nostro tempo e le nostre migliori energie. Era davvero importante? Era qualcosa “che resta”?
C’è anche un altro “fare” che ritorna alla mente, quello a cui ciascuno di noi dedica la sua esistenza. A cosa si è sentito “chiamato”, quasi una vocazione. E se questa fosse un’incredibile opportunità per rimettere al centro il fare del lavoro, provando ad innervare di nuova dignità quelle attività che forse la polvere dei giorni ha ricoperto di scontatezza, devitalizzandole dal nostro tocco personale e togliendocene la passione e il gusto e, insieme, il desiderio di rilasciare qualcosa di bello al mondo?
Perché in questi giorni un’altra dimensione del lavoro ricompare con forza, quella sociale. Se oggi le routine professionali appaiono stravolti dagli eventi, nei tempi come nei modi, non possiamo dimenticare quanto il lavoro negli ultimi decenni sia stato sottoposto ad una inesorabile scarnificazione nel suo significato, nel suo valore. Dai ritmi imposti dal mercato, dalla concorrenza globale, dalla spending review.
E’ questo un momento di possibile riappropriazione e riorganizzazione della nostra vita personale e sociale a partire dal lavoro che riscopre con un grado di radicalità impressionante il suo profondo significato collettivo e sociale.
Il lavoro è uno dei modi in cui noi siamo grazie a questo essere per altri.
Nelle parole della generatività sociale potremmo dire che questo è il tempo dell’esemplarità. Il lavoro diventa nuovamente il locus in cui è possibile rilegare la funzione – il fare bene quel che facciamo – e il suo significato – il perché lo facciamo. E che tira fuori risorse impensabili generando valore per tutti. Lo vediamo bene nell’abnegazione che va oltre ogni mansionario di medici, infermieri, operatori sanitari e sociali che si occupano delle persone più fragili tra noi, anziani, ammalati, disabili, bambini, e che quotidianamente sono esposti al contagio. Ma il popolo dei lavoratori che stanno facendo particolarmente bene le cose – piccoli gesti che durano – è molto più ampio. Sono tante le persone che stanno portando avanti con grandissimo senso di orgoglio e responsabilità il loro lavoro: chi si occupa dei trasporti, della produzione e fornitura dei generi di prima necessità e farmaceutici, della pulizia e della sicurezza, della scuola e degli amministratori locali, della ricerca scientifica e dell’innovazione.
E il lavoro riscopre anche la sua essenza collaborativa. Nessuno lavora da solo. Siamo tutti in una qualche squadra. Siamo tutti dentro una grandissima squadra. L’immagine dei team ospedalieri capaci di un’incredibile sincronia funzionale, ma anche di quella comprensione intuitiva che, attorno a un malato, consente di intendersi con gli occhi è entrata nei nostri immaginari così come le storie di questi “nuovi eroi” che ci illuminano di speranza e di una nuova fiducia nel genere umano con la loro generosità di sostituirsi tra colleghi, appena uno cede alla fatica o allo sconforto, e con la loro tenerezza del prendersi cura l’uno con l’altro nei luoghi della più cruda asetticità della distanziazione sociale.
I reportage che ci trasportano negli ospedali e nelle case di cura, nelle aziende, nei supermercati, nel raccontarci la fatica, l’impegno e la dedizione ci stanno raccontando nuovamente il lavoro, cosa è il lavoro.
E noi, forse ancora inconsapevolmente, il lavoro lo stiamo passando al vaglio, con una nuova misura delle cose. Non sulla base della sua valutazione di mercato, ma del reale contributo che esso apporta qualitativamente al bene di ciascuno e di tutti.
Abbiamo svuotato e disconosciuto, ma in questi giorni in cui rischiamo di cadere velocemente tutti molto più in basso nella scala di Maslow ci rendiamo conto di cosa ha senso e cosa ne ha decisamente meno. Anche rispetto al lavoro.
Continueremo, per fortuna, ad avere sempre bisogno sia di pane che di rose – ed ogni lavoro è importante perché apporta con creatività un suo contributo in risposta alla inesauribile varietà dei bisogni dell’umano – ma non possiamo non riconoscere che siamo andati troppo oltre. Abbiamo lasciato che il lavoro di alcuni – soprattutto il lavoro di cura – venisse quantificato e squalificato, depredato del suo riconoscimento, e dunque del suo valore sociale da cui deriva anche una valorizzazione economica, a fronte di attività che di valore ne hanno messo in circolazione molto meno, e perfino lo hanno estratto da altro e da altri.
Ci sono due tipi di attività, racconta ancora Guardini, quella della dynamis immediata – la forza che ci porta a fare, organizzare, produrre – e quella del senso delle cose, del bene. Nell’uomo adulto esse trovano un certo equilibrio che va verso la saggezza.
Nell’essere oggi a faccia a faccia con la nostra caducità ci è offerta la possibilità di diventare una società più adulta recuperando, per riconoscerlo nuovamente, un “fare bene” che nell’impoverirsi ci ha reso tutti più poveri. Di dignità come di senso.
E’ forse il tempo di una nuova maturità che passa anche dal rimettere al posto giusto le cose, soprattutto quelle che durano.