Il grande antropologo Ernesto De Martino, in una serie di appunti usciti postumi con il titolo La fine del mondo, usa un’espressione che può illuminare questi giorni di incertezza, di sospensione, di angoscia per il presente e il futuro: catastrofe vitale.
Catastrofe è letteralmente un rovesciamento, un capovolgimento, uno sconvolgimento repentino e in peggio delle condizioni esistenziali, di solito legato a un evento imponderabile. E certamente il coronavirus, per il mondo e per l’Italia, è una catastrofe. Improvvisamente ci siamo trovati di fronte, impreparati, al lato oscuro della interconnessione globale, che costituisce una perfetta infrastruttura anche per la diffusione dei virus patogeni, oltre che dei video ‘virali’ e delle news, fake e non.
Mai come in questo momento l’individualismo si rivela un’astrazione: siamo tutti interconnessi, le nostre vite sono legate le une alle altre, i nostri comportamenti condizionano la vita di altri e viceversa. E la catastrofe non riguarda solo il presente: abitudini cambiate di colpo, socialità quasi azzerata, scuole e università ferme, negozi e locali pubblici deserti, e molto altro. È il futuro che spaventa di più: gli effetti su un’economia già zoppicante, e le ripercussioni sociali in un mondo già segnato da tante e crescenti disuguaglianze.
Da qui, una prima lezione: non siamo individui, ciascuno nella sua bolla di immunità, ma persone in relazione, ciascuna con il suo carico di responsabilità: ciascuno di noi può fare la differenza, per sé e per gli altri (soprattutto i più deboli) per frenare il contagio. È un altro con-tatto, fatto di consapevolezza e sollecitudine per gli altri prima ancora che preoccupazione per sé, a cui siamo chiamati ora: lasciarci toccare dal pensiero dell’altro. La capacità di pensare in termini di ‘noi’ anziché di ‘io’ è uno sforzo indispensabile, faticoso ma benefico.
C’è però anche l’altro aspetto che l’espressione di De Martino mette in luce. L’ossimoro ‘catastrofe vitale’ rivela infatti la struttura paradossale dell’esistenza umana, dalla quale trarre le risorse per affrontare anche questo momento difficile. La tensione tra la vita e la morte è insopprimibile, e rimuovere la morte dal nostro orizzonte rischia di rendere le nostre vite svuotate di senso. Ora che la catastrofe ci mette irrimediabilmente di fronte alla vulnerabilità della nostra esistenza siamo anche chiamati a rendere la tensione tra la vita e la morte un nodo di fecondità possibile. Ora che abitudini e routines che davamo per scontate (e che perciò pensavamo immodificabili) sono state spazzate via, e che il motto individualistico ‘mors tua vita mea’ rivela tutta la sua fallacia (‘vita tua vita mea’ è piuttosto ciò che ci tiene insieme oggi) siamo nelle condizioni di povertà e leggerezza per ripensare il senso e le forme del nostro essere insieme, le forme e i ritmi delle nostre attività lavorative.
Non rassegniamoci al lato buio della questione, non limitiamoci alla nostalgia per una normalità che di certo non tornerà presto, e forse non tornerà affatto (e magari non è solo un male). Approfittiamo piuttosto di questo tempo sospeso per ripensare il senso delle nostre vite, dei nostri legami, della gratitudine per ciò che c’è, delle forme che possiamo ricostruire a partire da questo ‘azzeramento’ forzato. Che siano forme (di socialità, di lavoro, di consumo, di contribuzione, di abitare è vivere le città) capaci di ospitare più vita.
Il paradosso ci educa, ci spinge a un salto di immaginazione se sappiamo lasciarci interpellare. Lo scrive anche Umberto Saba in uno dei suoi versi. Prendiamolo come un augurio per questo tempo: ‘Ed è il pensiero della morte che, alla fine, aiuta a vivere’.