In un mondo disordinato e convulso, uno dei compiti principali della politica è quello di creare coerenze. Di costruire, cioè, cornici di senso che, traducendosi in assetti istituzionali efficaci, riducano il grado di confusione e contraddizione tipico di una società avanzata.
Quando parliamo di migranti, parliamo di persone umane. È questo il nocciolo intrattabile della questione. Ed é questa anche la ragione per cui l’idea semplice di chiudere la porta a chi chiede di entrare é oggettivamente problematica per l’Occidente. Perché, limitandoci ai respingimenti, distruggeremmo uno dei pilastri della nostra civiltà: e cioè il riconoscimento della dignità di ogni persona umana.
Dall’altra parte, trattandosi di persone, non si può parlare di questo tema dimenticandosi che, al di là della accoglienza, l’integrazione é un processo estremamente lungo, incerto e complesso. Troppo spesso si parla di questo argomento con un semplicismo disarmante, senza nemmeno immaginare quanto l’obiettivo sia complicato raggiungere.
La solidarietà é sempre una cosa seria.
E di sicuro non la si costruisce con le parole. Anzi, la storia insegna che il modo migliore per vanificare un tale principio é proprio la ripetizione retorica di formule sempre più vuote e lontane dalla realtà.
Per questo, nella situazione in cui ci troviamo, chi sostiene il valore della solidarietà ha l’onere di tradurre il termine in pratiche istituzionali e modelli sociali sostenibili.
Il che richiede un lavoro quotidiano, silenzioso e impegnativo.
Purtroppo è proprio la traduzione pratica di buone idee teoriche il passaggio su cui di solito cadono, specie da noi, le migliori intenzioni.
Sul piano interno, l’italia é stato uno dei paesi che più si è esposto sul lato dell’accoglienza. Negli ultimi anni, il nostro paese ha ricevuto molti riconoscimenti per i salvataggi in mare. Ma forse ci siamo un po’ troppo compiaciuti di questi successi.
I problemi si moltiplicano quando si sbarca a terra. Lo sforzo finanziario è stato cospicuo, ma ci sono molte ombre attorno al modo in cui soldi vengono spesi. Soprattutto non si riesce a cogliere il senso di quello che si sta facendo: accogliamo persone, d’accordo. Ma all’interno di quale disegno?
C’è confusione sui respingimenti; c’è confusione sulle attività che si propongono ai richiedenti; c’è confusione nei percorsi di integrazione: troppo spesso chi viene autorizzato finisce per ingrossare i circuiti del lavoro nero e dello sfruttamento. Quello che sembra sfuggire è che la sostenibilità di una politica dell’accoglienza dipende dalla qualità del progetto complessivo messo in campo.
Tutto ciò si intreccia, poi, con i temi legati alla politica estera. La percezione del cittadino comune è chiara: non si può pensare di gestire i flussi da soli, senza un impegno comune sul piano internazionale. In primo luogo, perché il fenomeno va governato intervenendo sui paesi d’origine e sulle rotte di emigrazione; in secondo luogo, perché molto dipende dalla collaborazione con l’Europa e la costruzione un quadro condiviso di azione.
I risultati su questi piani sono stati fino ad oggi assai limitati. Così che la sensazione diffusa é che l’Italia sia isolata nel gestire un problema più grande di lei.
Con le prevedibili ripercussioni sul modo in cui la questione migratoria viene percepita.
E, in questa situazione confusa, la maggioranza di governo ha deciso di aprire il fronte della legge sul cosiddetto ius soli. Non che la legge non sia necessaria. Ma c’è da chiedersi se la scelta del momento sia stata quella più opportuna. Nello stato d’animo in cui si trova gran parte del paese – in un’estate che vede un picco di arrivi – un’iniziativa di questo tipo rischia di essere vista come una forzatura piuttosto che come la naturale conclusione di un percorso. Sono in tanti che pensano che una legge che regoli in modo nuovo i criteri per diventare cittadino italiano sia un passaggio necessario verso il futuro. Ma sono ancora di più quelli che pensano che ciò debba avvenire in maniera comprensibile e coerente.
Coi suoi intrecci tra questioni interne (progetto di integrazione e criteri di cittadinanza) ed estere (rapporti con l’Europa e azione internazionale) non c’é oggi tema più “politico” di quello migratorio. Per questo, al dì la della oscillazione tra buoni sentimenti e paure infondate, tutto si giocherà sulla capacità di costruire un senso “politico” – cioè un quadro di coerenze tra i diversi piani in gioco – alle diverse azioni intraprese.
Fallire tale bersaglio – magari in una girandola di dichiarazioni e iniziative estemporanee e contraddittorie – significa screditare il valore della solidarietà e spianare la strada alle reazioni più distruttive.