Nell’ampio e complesso discorso sulla generatività sociale emerge una pregnante sostanza formativa. Tale nucleo di significati e riflessioni, già più volte rintracciato, implicitamente o esplicitamente, in altri contributi, ha molteplici forme e direzioni: tra queste, una prima direzione riguarda la questione chiave di come formare alla generatività, muovendo dall’assunto che la generatività non solo accade, ma può essere facilitata, sviluppata, stimolata; in certo senso formata, sia nella dimensione sociale e organizzativa, che in quella relazionale e dunque soggettiva.

Tale gesto formativo non ha una forma istruttiva quanto più una radicale appartenenza alla sfera dell’educare, come gesto capace di incontrare e comprendere l’altrimenti, di portare al di là e al di fuori, di far attraversare narrazioni ed esperienze di senso e trasformazione.

La declinazione di tali esperienze è e potrà essere oggetto di definizione, sia sul versante più proprio dell’ambito socio-educativo, sia nella sua connessione con l’ambito familiare, nonché su quello più prettamente organizzativo, partendo dalla proposta di alcune coordinate di ordine pedagogico radicalmente connesse ad un’antropologia e una sociologia ben declinate.

In un contesto come quello post-moderno in cui la persona vive segnata dalla cifra della separazione (l’uomo modulare descritto da Miguel Benasayag[1] ne è rappresentazione efficace), immaginare luoghi, esperienze, capaci di costruire una realtà sociale in linea con l’idea della libertà come legame significa reinterpretare l’esilio separatista del soggetto come un esodo, un percorso verso l’altro, immaginando contro-ambienti educativi capaci di coerenza; un luogo che formi, che incùbi la generatività facendosi carico della novità sperimentata nella relazione (per sè, per gli altri, per la società).

La centralità del valore-coerenza, che in questo contributo vuole essere posto a chiave e perno del contro-ambiente educativo, sulla scorta della celebre sollecitazione batesoniana[2] in Dove gli angeli esitano, è motivata a partire dall’etimologia: coerente è colui che è unito (cohesus – cum-insieme / herere-essere attaccato), profonda opposizione al tratto dominante della separazione. Coerenza è riconoscere il vincolo in ogni situazione, come tramite di libertà; non solo il vincolo della parola data, l’accordarsi della parola all’azione, ma anche il vincolo più profondo: la mia costitutiva dipendenza dall’altro, il mio essere nodo relazionale.

La risignificazione del termine coerenza, la sua re-visione, appare in questo contesto necessaria ed esplicita rispetto ad una prospettiva dominante che ha interpretato la persona o il gruppo coerente come soggetti conservatori, neganti il cambiamento, fissi e rigidi in un’immagine capace di resistere ad ogni mutamento ad essi esterno o interno.

La coerenza è qualità rivendicata per giustificare o mostrare una costanza di opinione e pensiero che spesso ha avuto come sua conseguenza diretta una negazione dell’ascolto, del cambiamento, della trasformazione; un carattere per sua natura anti-educativo e anti-generativo; in metafora, lo sguardo di Medusa che non solo impedisce la relazione ma anche che pietrifica ogni forma di alterità desiderante l’incontro, che elimina la possibilità stessa della formazione.

La traccia che si vuole seguire è in radicale antagonismo con questa immagine, proponendo una forma altra della coerenza come valore dinamico che armonizza la molteplicità costitutiva e sempre in fieri del soggetto, in una struttura interiore da riconoscere nella dipendenza dialogica e nel vincolo trasformativo dall’altro da me.

In tale ridefinizione la coerenza è esperienza della responsabilità del mondo tra noi e gli altri, mondo costituito dalla parola che genera il legame, mondo a cui si è uniti e di cui avere cura cogliendo l’ineliminabilità e la radicalità dell’altro perché esista un mondo[3]. La coerenza è lo sperimentare, al di là dell’ideologismo comunitarista di varia radice, l’investimento sulle relazioni nelle quali si abita, in un’unità che è esperienza del limite, del dialogo, della dipendenza. La coerenza è, infine, esperienza della ricostruzione di una struttura esistenziale interiore al di là della promessa prepotente di immortalità e infallibilità delle tecnoscienze e della precarietà di un mondo che ci espone, impotentemente, al continuo e incessante flusso di rischi e incertezze.

Cosa può significare, allora, costruire un’educazione alla coerenza?

Non un’incensazione di discorsi eulogistici e moralizzanti né la nostalgia di pratiche educative tradizionali, senza i tanto discussi media digitali, ma la ricostruzione di un contesto che esponga all’inatteso e richieda il coraggio dell’esplorazione, non secondo i dettami della rapidità, dell’efficientismo, della dipendenza dalla tecnica, ma da uno stile di attraversamento dell’esperienza capace di far cogliere l’unità che è coerenza. L’unità che schiude il desiderio e dà libertà.

Riprendendo le tracce proposte un ventennio fa da Alex Langer[4]Lentius, profundius, suavius – in opposizione al motto di De Coubertain assunto a immagine del tempo presente, “Citius!, Altius!, Fortius!”-, si vuole indicare un atteggiamento istituente connotato secondo queste tre vie.

1. Costruendo un’idea di progresso sostenibile e di sviluppo umano, ritrovare il passo lento del camminatore vuol dire ri-conoscere il passo dell’umanità e farne esperienza.

Solo nel cammino vive l’epifania del volto, altrimenti indistinto nella folla, disciolto nella sola immaterialità tecno-scientifica, presentificato nell’attimo che non lascia traccia. Vivere un’esperienza in cui rallentare l’incedere del nostro movimento significa tornare a camminare fianco a fianco, ad attraversare, a vivere lo svelamento, come mostrato dai due camminatori verso Emmaus, dell’incontro con l’altro che porta a ri-conoscere, l’altro e se stessi.

La lentezza, lungi dall’immobilismo, è riconquista del tempo come progetto contro il tempo della fretta ansiogeno-ossessiva, che, presentificando, elimina il futuro come orizzonte concreto intrecciato ad un presente attivo e relazionale.

Tutto ciò trova forma pratica nella riabilitazione e nel ripensamento di categorie pedagogiche come l’attesa, la sperimentazione della fatica e del limite, il contatto con il corpo e la natura, l’avventura; nonchè, ovviamente, la progettualità esistenziale come telos dell’intero accadere educativo.

2. La profondità va intesa oggi come una risposta alla necessità educativa di comprensione, di un approssimarsi cauto e rispettoso all’altro da me che nella narrazione diventa incontro con-senso. La comprensione come pratica narrativa “civilizzatrice”[5] richiede ed esprime la necessità di parola ma ancor prima di silenzio, unico luogo da cui la parola autentica come parola tras-formatrice può emergere; tempo e spazio nel quale la complessità dell’altro ma anche la sua somiglianza possono essere riconosciute. La comprensione esige l’abilità ad intravedere quel residuo indicibile, quello scarto generativo, che l’alterità sempre contiene, in una trascendenza che come raccontato nel libro dei Re[6], è una voce che è silenzio, che ha la forma della brezza leggera, chiedendo la medesima delicatezza nell’avvicinarsi.

Educare alla comprensione si traduce dunque in un dimorare con l’altro, riconoscendo la necessità di un ripensamento dei tempi e degli spazi dell’apprendimento, una revisione profonda e significativa del modello di conoscenza che si propone, una discussione nuova sull’educazione al silenzio e all’osservazione, passi ineliminabili perché sulla comprensione faccia perno una nuova proposta di educazione etica, antropologica ed epistemologica.

3. Connessa alla dimensione poc’anzi esplicitata è la terza direzione: la lievità, termine ripreso esplicitamente dall’impianto teorico di Giovanni Maria Bertin, intendendo un carattere esistenziale in grado di far riscoprire il contatto con la propria interiorità, con la propria verità di dono (conversione, già in Nietzsche, della volontà di potenza in senso anti-individualista), liberando le più proprie ragioni creative e la più profonda speranza.[7]

L’opposizione al principio di pesantezza, che limita se non annulla la fiducia nel futuro nonché il ruolo della progettualità esistenziale come apertura di possibilità per il soggetto e per la società, si costituisce di ciò che in educazione è condensato nel termine creatività, sia nella direzione della valorizzazione di tramiti di incontro con il desiderio (l’arte nella sue molteplici declinazioni è certamente una pratica ampiamente sottodimensionata), ma anche come una specifica competenza di chi educa; ha scritto a questo proposito Riccardo Massa: “Esiste una specifica attitudine alla creatività pedagogica, quella intesa come la capacità di progettare non tanto e non solo delle sequenze di contenuti o di attività determinate, ma l’insieme delle condizioni che consentono di padroneggiare un dispositivo strategico complesso, volto a istituire il campo dell’esperienza educativa.”[8] Un’abilità e uno stile quindi non solo inerenti l’esperienza educativa, ma anche necessari ad istituire l’esperienza stessa; richiamo ad un elemento tanto implicito quanto necessario: la revisione del proprio essere costruttori di esperienze educative capaci di farsi tramiti di generatività.

Non sfugge come queste tre direzioni di senso, tratteggiando i caratteri di un’esperienza dove il legame con l’altro ritrovi la sua costituzionalità, richiedano, pedagogicamente, un’acquisizione di concretezza e materialità; ma è proprio nello sforzo di concretizzazione che ogni educatore, insegnante, genitore e formatore, gioca il suo ruolo educativo: prendersi la responsabilità del mondo perché sia possibile la generatività del nuovo venuto.


[1] M. Benasayag, Il cervello aumentato, l’uomo diminuito, Erikson, 2016.

[2]I miei studenti migliori erano spesso cattolici o marxisti, perché tanto gli uni quanto gli altri imparano una cosa che oggi ai bambini non viene più insegnata: l’importanza della coerenza. Tra l’altro gli farebbe un gran bene venire a contatto con qualche sistema di credenze religiose, con qualche complesso intreccio di logica e poesia, perché imparerebbero qualcosa sulla metafora.” Gregory Bateson, Dove gli angeli esitano, Adelphi, 1989, p.223.

[3] Ci si riferisce particolarmente all’opera di H. Arendt e nello specifico Vita activa, Bompiani, 1988; e Che cos’è la politica?, Einaudi, 2006.

[4] Alex Langer, Il viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995, Sellerio, Palermo 2011.

[5] E. Morin, Insegnare a vivere, Raffaello Cortina Editore, 2015, p.56.

[6] Libro dei Re, capitolo 19, La Bibbia di Gerusalemme, Edizione CEI, 2008.

[7] Riferimento G.M. Bertin, Nietzsche. L’inattuale, idea pedagogica, La nuova Italia, 1977 – G.M Bertin, Ragione proteiforme e demonismo educativo, La Nuova Italia, 1987 – G.M. Bertin e M.G. Contini, Costruire l’esistenza. Il riscatto della ragione educativa, Armando Editore, 1986.

[8] R. Massa in F.Cappa, Una nuova creatività pedagogica. Intervista a Riccardo Massa, Pedagogika n.12 dicembre 1999 p.15.