Ma ha senso scandalizzarsi della post-verità? Se il fine giustifica i mezzi e l’effetto è ciò che conta, perché non si dovrebbero usare le fake news per denigrare l’avversario, aumentare l’audience, vincere le elezioni? Nulla di nuovo sotto il sole: in fondo, non è sempre stata questa la tattica di tutte le dittature, sempre abilissime nel manipolare i fatti?
Qual è dunque il problema con la post-verità? Perché improvvisamente ci si accorge del problema? Questione, antichissima, si ripropone oggi in modo nuovo per la convergenza di tre fattori. La rimozione, sul piano filosofico e culturale, dell’idea stessa di verità, considerata troppo impegnativa e violenta.
L’istituzionalizzazione della società dello spettacolo, che è una società neosofista basata sul potere persuasivo: vero è semplicemente ciò che raggiunge il suo effetto. Infine, la moltiplicazione delle fonti emittenti e la fine del monopolio comunicativo dei media tradizionali. Che ci piaccia o no, la vita sociale contemporanea è immersa in un flusso di informazioni, immagini, suoni al di là del controllo di chiunque. Quasi fossimo immersi in un grande bazar dove tutti gridano, strattonano, spingono per cercare di accalappiarsi i passanti.
L’errore è stato quello di aver pensato di poterci sbarazzare senza troppi problemi di quell’ospite incomodo che è la questione della verità. In realtà la abbiamo solo annegata nel mare del soggettivismo (non sempre innocente) che è solo il polo speculare — ma alla fine ugualmente problematico — del totalitarismo. Behemoth, simbolo del caos del tutto contro tutti e Leviathan, simbolo del potere autocratico: i due mostri biblici tra cui oscilla la vita sociale sono ancora tra noi.
Come ne usciamo? È bene dirselo: non ci sono scorciatoie. Non ce ne sono mai state e tanto meno ce ne sono oggi. In questo senso, è certamente apprezzabile ricordare che non tutti i pareri sono uguali e che in particolare la scienza va ascoltata. Ma sarebbe davvero ingenuo pensare che così possiamo risolvere i nostri guai. Per statuto, la scienza arriva fino ad un certo punto e in ogni caso non è mai in grado (per fortuna) di dissolvere tutte le zone d’ombre.
Tanto meno, la soluzione sta nel pensare a qualche forma di censura o, alla comica, se non fosse tragica, idea di Grillo di una giuria popolare per valutare le notizie. Al fondo c’è la questione di sempre: non è possibile la vita sociale, né tanto meno la costituzione di una comunità politica, senza un comune rispetto di quel bene fondamentale che è la «verità». Anche se occorre subito aggiungere che l’unico modo per trattare sensatamente un tale bene è quello di custodirlo non come possesso, ma come domanda. Come spazio, cioè, dove la discrepanza, la differenza tra il soggetto e l’oggetto, tra i mezzi e i fini non può mai essere cancellata.
È quando si vuole negare questo spazio «vuoto» che c’è tra noi che nascono i problemi. In quel preciso momento, la vita democratica comincia a degradarsi e a correre gravi pericoli.Dunque le polemiche di questi giorni sono utili non se cerchiamo la formuletta toccasana. Ma se ci riportano alla consapevolezza che la questione della verità non può essere liquidata. Ciò significa riconoscere la costitutiva insufficienza di ogni punto di vista, che è poi il modo per tenere vivo il confronto come tensione comune per andare avanti.
Contina a leggere su Corriere.it