Veniamo alla seconda parte del nostro decalogo per la promozione di un welfare generativo.
6. Aprire una grande nuova stagione dei beni comuni che vanno tolti dal governo pubblico.
I beni comuni non sono beni pubblici nel senso di statali. Ma beni di tutti. Acqua, trasporti, cultura, ambiente, sanità, scuola. Se non ci incammineremo su questa strada verranno quasi tutti privatizzati. Perché il grande capitale punta su questi beni per il principale business del secolo nuovo. Il tema è: non c’è uno spazio comunitario che dà vita a forme nuove di governo e produzione di questi beni? L’aspirazione sono nuove poliarchie che ridiano slancio alla democrazia.
7. Dobbiamo riconnettere l’idea del dono e quella di interesse.
Noi le abbiamo separate. Mai i due sono fratello e sorella nella storia comunitaria italiana. Non sono due nemici. Interesse (inter-essere) è ciò che sta tra di noi. Occorre rilegare il buono con il giusto, il bello con il vero.
8. Il welfare è un’area di investimento e non di costo.
Questo vuol dire che bisogna convertire parte della spesa pubblica. Che va usata per alimentare e rigenerare tutta quella vita che oggi è frantumata nelle comunità e nei territori. Così devono fare le fondazioni che spesso hanno fatto da supplenza all’ente pubblico. Noi abbiamo bisogno di concepire quest’area di investimento. Non solo un costo coperto dalla fiscalità generale.
9. Attraversare l’oggi, innovare con l’eredità di una tradizione. Dobbiamo ricordarci della nostra tradizione.
Il processo innovativo in salsa mediterranea è sempre tradizionale. Cosa è però la tradizione? E’ il culto del valore di fondo, non è la forma che via via quel culto assume. Da motivazione nuove. Quindi si consuma. Questo non vale solo per chi amministra il pubblico, questo vale acnhe per le forme del terzo settore e del profit.
10. Dobbiamo essere coscienti che siamo una generazione fortunata, che sta a cavallo di due millenni.